“La dipendenza è la sostituzione della relazione con l’altro con un oggetto. Non importa quale sia l’oggetto, tanto che chi ne soffre ha dipendenza da più di un oggetto. Ma
“La dipendenza è la sostituzione della relazione con l’altro con un oggetto. Non importa quale sia l’oggetto, tanto che chi ne soffre ha dipendenza da più di un oggetto. Ma il problema rreale di queste situazioni è quella dimensione fisica che gli inglesi chiamano craving, ovvero il bisogno dall’oggetto del desiderio. Questo è il nodo della dipendenza”.
Così la dr.ssa Sarah Viola, partecipando al webinar organizzato da Acadi dal titolo “Analisi dell’impatto sociale del settore del Gioco Pubblico nella Regione Lazio e delle conseguenze dell’entrata in vigore della L.R 5/2013” svoltosi oggi.
“La dipendenza da gioco d’azzardo – spiega la psicoterapeuta – nasce con la capacità dell’uomo di scommettere e con la comprensione dei meccanismi del rischio, più o meno calcolato. Il suo incremento negli ultimi decenni è legato, sicuramente, allo aumento del fenomeno più ampio e generale della dipendenza. Il cibo, l’alcol, il gioco, lo shopping, le droghe, il fumo, perfino l’amore sono oggetti dei quali alcuni individui non riescono a fare a meno. Dipendere da qualcosa o da qualcuno significa, infatti, sostituire un soggetto, l’Altro, la relazione normale, con un oggetto, la cosa o la persona reificata. E ciò nel tentativo di sentirsi meno esposti e più rassicurati: l’oggetto che scelgo come sostituto della relazione, infatti, mi dà l’illusione di avere in mano il controllo della situazione, di non correre rischi, di poter essere io a gestire il rapporto, in una parola, mi dà la sensazione, del tutto falsa, di non correre il pericolo di soffrire.
La relazione con l’Altro, al contrario, mi fa sentire esposto alla possibilità del tradimento, dell’abbandono, della perdita, e, di conseguenza, del dolore. La dipendenza si struttura lentamente, quasi senza che il soggetto se ne accorga. E, di fatto, la consapevolezza che qualcosa è cambiato il paziente la riceve quando si rende conto del bisogno che, dentro di lui, si è fatto strada relativamente all’oggetto da cui dipende. Questo bisogno, questa ricerca spasmodica, si chiama craving, dall’inglese:”desiderio improvviso ed incontrollabile”.
E’ con il craving che si deve cimentare chi si occupa di dipendenze. E il craving non si controlla con limiti e paletti che rendano più complicato il raggiungimento dell’oggetto della dipendenza. Anzi, qualsiasi ostacolo, più o meno superabile, rende il desiderio, il craving appunto, ancora più intenso e rende ancora più forte il piacere della sua soddisfazione. Per curare la dipendenza non si può agire sull’oggetto, rendendolo più o meno proibito, ma sul soggetto portatore della dipendenza, rendendolo più forte e più consapevole.
Alla base del disturbo da dipendenza c’è, infatti, un Io fragile, con una bassissima tolleranza alle frustrazioni, incapace, cioè, di affrontare i problemi, le responsabilità, i NO della vita. Bene il paziente, quindi, deve essere il centro dell’intervento. Egli va aiutato, in primis, a rendersi conto di avere un problema, ad ammetterlo e ad accettare l’aiuto. Ciò si ottiene attraverso dispositivi ben diversi dal proibizionismo, in qualsiasi modo agito, si ottiene con un intervento mirato e capillare, personalizzato, potremmo dire e cucito sul soggetto. Si può ipotizzare un dispositivo che agisca su più livelli: 1) l’osservazione e l’individuazione dei soggetti ludopatici presenti nelle singole sale. Per questo compito potranno essere arruolati giocatori patologici già individuati e “presi in carico” con una sorta di meccanismo di auto-mutuo-aiuto che, da sempre, si utilizza nel trattamento delle dipendenze e che, da sempre, mostra la sua efficacia; 2) controllo e limitazione de soggetti individuati ai quali andrà posto, inizialmente, il divieto di giocare e, soltanto dopo che avranno dimostrato di aver seguito un percorso di consapevolezza e trattamento, potranno essere riammessi al gioco con limitazioni di tempo e tetto massimo di spesa preventivamente concordati;3) le famiglie dovranno essere arruolate come interlocutori di una rete che dovrà unire i gestori delle sale, gli “educatori” presenti in struttura e scelti, come si diceva, nelle file degli ex giocatori patologici, uno o più terapeuti di riferimento, la famiglia, appunto ed eventualmente il medico curante;4) le sale da gioco dovrebbero diventare punti cruciali della informazione e della formazione sul sintomo, attraverso la creazione di eventi aperti alla popolazione e atti a fare “cultura” intorno al mondo del gioco, della ludopatia e delle dipendenze; 5) a disposizione dei giocatori andranno sempre lasciate pubblicazioni specifiche e mirate come pure contatti di professionisti e centri specializzati”.
PressGiochi
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