23 Novembre 2024 - 16:24

Scommesse. La Corte di Cassazione conferma la validità del sistema concessorio italiano e respinge il ricorso Stanleybet

La Corte di Cassazione, a sezioni unite, ha rigettato il ricorso promosso dalla società Stanleybert (Magellan Robotech) che aveva chiamato in causa lo Stato italiano e la Presidenza del Consiglio dei ministri contro la discriminazione subita per non aver potuto acceder al mercato italiano dei giochi, con annessa richiesta di risarcimento danni.

26 Luglio 2024

La Corte di Cassazione, a sezioni unite, ha rigettato il ricorso promosso dalla società Stanley International Betting Limited (Magellan Robotech) che aveva chiamato in causa lo Stato italiano e la Presidenza del Consiglio dei ministri contro la discriminazione subita per non aver potuto acceder al mercato italiano dei giochi, con annessa richiesta di risarcimento danni.

La società inglese denunciava che le era stato impedito o reso eccessivamente difficile l’accesso al mercato italiano dei giochi e delle scommesse nel periodo dal 1998 al 2006, mediante misure di vario genere tradotte in ostacoli alla partecipazione a procedure selettive e concorsuali, in barriere alla prestazione transfrontaliera dei servizi di scommessa, in provvedimenti di sequestro e chiusura di pubblici esercizi e di oscuramento di siti internet a essa riferibili.

Intervenendo sulla questione, la Corte di Cassazione ha rilevato: “Sia l’imposizione ai soggetti interessati dell’obbligo di ottenere un’autorizzazione di polizia, in aggiunta alla concessione rilasciata dallo Stato, sia la limitazione del rilascio della suddetta autorizzazione ai richiedenti già in possesso della concessione sono state ritenute non in contrasto con gli artt. 49 e 56 del TFUE, perché l’obiettivo attinente alla lotta contro la criminalità collegata ai giochi d’azzardo è idoneo a giustificare le restrizioni alle libertà fondamentali, sempre che tali restrizioni soddisfino il principio di proporzionalità in un ambito di coerenza e sistematicità dei mezzi impiegati (cfr. del resto C. giust. 1912-2018, causa C-375/17, Stanley International Betting e Stanleybet Malta; C. giust. 12-9-2013, cause C-660/12 e C-8/12, Biasci).

Difatti è stato riconosciuto che un sistema di concessioni può costituire un meccanismo efficace per sottoporre a controllo gli operatori del settore, onde prevenire l’esercizio di queste attività per fini criminali o fraudolenti.

Allo stesso tempo è stato affermato che spetta al giudice nazionale verificare se un tale sistema, nella parte in cui limita il numero di soggetti che operano nel settore dei giochi d’azzardo, risponda realmente all’obiettivo mirante a prevenire l’esercizio delle attività in tale settore per fini criminali o fraudolenti, e se le relative restrizioni risultino proporzionali. E non è secondario segnalare come l’ampiezza del margine di discrezionalità di cui godono gli Stati in questa materia sia così rilevante da indurre a ritenere inesistenti, nel diritto dell’Unione, perfino gli obblighi di mutuo riconoscimento delle autorizzazioni rilasciate dai vari Stati membri.

Per cui la circostanza – per esempio – che un operatore disponga, nello Stato membro in cui è stabilito, di un’autorizzazione per i giochi d’azzardo o le scommesse non osta a che un altro Stato membro subordini al possesso di un’autorizzazione rilasciata dalle proprie autorità la possibilità, per un tale operatore, di offrire siffatti servizi a consumatori che si trovino nel suo territorio (v. C. giust. 15-9-11, causa C-347/09, Dickinger e Omer; C. giust. 8-9-10, cause riunite C-316-358-360-409-410/07, StoB).

È vero allora che la disciplina nazionale italiana ratione temporis rilevante (si discorre del periodo 1998-2006) non consente alle società di capitali ad azionariato diffuso la partecipazione alle gare per l’attribuzione delle concessioni, per la difficoltà di identificare gli azionisti.

Ed è vero che la Corte di giustizia ha avuto modo di affermare che una siffatta disciplina può integrare (in astratto) una restrizione alla libertà di stabilimento e alla libera prestazione dei servizi non giustificata da motivi imperativi di interesse generale, e in particolare dall’obiettivo mirante a evitare che soggetti che operano nel settore dei giochi d’azzardo siano implicati in attività criminali o fraudolente (cfr. Corte giust. 6-3-2007, cause riunite C-338-359-360/04, Placanica, citata dalla ricorrente).

Nella sentenza Placanica è stato osservato che unata pubmcaeone “esclusione totale va oltre quanto è necessario per raggiungere l’obiettivo mirante ad evitare che soggetti che operano nel settore dei giochi d’azzardo siano implicati in attività criminali o fraudolente”, visto che “esistono altri strumenti di controllo dei bilanci e delle attività degli operatori nel settore dei giochi di azzardo che limitano in modo minore la libertà di stabilimento e la libera prestazione dei servizi, come quello consistente nel raccogliere informazioni sui loro rappresentanti o sui loro principali azionisti”.

Il riferimento della ricorrente a tale decisione ha però una limitata rilevanza; mentre non ce l’ha affatto il rinvio alla sentenza 16-2-2012, cause riunite C-72/10 e C-77/10, Costa Cifone, che attiene a normativa sopravvenuta. Non può sottacersi che ciò che emerge dalla prima delle decisioni evocate ha un suo livello di specificità. E la cosa non cambia neppure ove si considerasse l’ambito della seconda (la Costa Cifone, appunto).

La sentenza Placanica viene in gioco a proposito dei risvolti sanzionatori, in relazione alle fattispecie di mancanza dell’autorizzazione di polizia, avendo la sentenza spiegato che “la mancanza di autorizzazione di polizia, di conseguenza e in ogni caso, non potrà essere addebitata a soggetti quali gli imputati nelle cause principali che non avrebbero potuto ottenere tali autorizzazioni per il fatto che la concessione di tale autorizzazione presuppone l’attribuzione di una concessione di cui i detti soggetti non hanno potuto beneficiare in violazione del diritto comunitario”.

Questo comporta semplicemente che in una situazione di esercizio di un’attività organizzata di raccolta di scommesse in assenza di concessione o di autorizzazione di polizia da parte di operatori, impossibilitati a ottenere tali titoli a causa del rifiuto dello Stato membro, non è consentita l’applicazione delle sanzioni penali per l’esercizio abusivo dell’attività. Lo stesso accade per la sentenza Costa Cifone, che – in disparte la non aderenza alla normativa nazionale rilevante pro tempore – è letta (parimenti) in maniera unidirezionale dalla ricorrente, avendo di contro tale sentenza confermato la validità del sistema concessorio, salvo il profilo delle conseguenze sanzionatone (penali) nei confronti di persone operanti senza concessione e senza un’autorizzazione di polizia.

Insomma, si tratta di riferimenti che, anche a volerli considerare entrambi, non appaiono decisivi.

La conclusione sul versante penale non è minimamente in discussione. Altrettanto evidentemente, però, non ha niente da spartire con l’assunto al quale la ricorrente ha ancorato la responsabilità civile dello Stato italiano. La responsabilità è stata affermata per violazione del diritto comunitario integrata dal limite stabilito dalla legge nazionale per la partecipazione alle procedure selettive e concorsuali per l’accesso al mercato delle scommesse; cosa che, secondo la ricorrente, sarebbe alla base della illegittimità radicale del sistema normativo nazionale per difformità rispetto alle norme comunitarie, le quali garantiscono il diritto di stabilimento e di prestazione di servizi transfrontalieri, i principi di non discriminazione, di proporzionalità e di ragionevolezza delle sanzioni.

Viceversa deve essere ribadito che in sé, e anche in relazione a quanto è stato affermato a proposito di modelli legislativi analoghi, il sistema normativo nazionale italiano non è stato mai ritenuto illegittimo come tale. La Corte di giustizia esaminando il tema sotto il profilo della compatibilità ha sì rilevato (con la sentenza Placanica sopra citata) che una normativa nazionale che vieti l’esercizio di attività di raccolta, di accettazione, di registrazione e di trasmissione di proposte di scommesse (in quel caso sugli eventi sportivi), in mancanza di concessione o di autorizzazione di polizia rilasciate dallo Stato membro, costituisce una restrizione alla libertà di stabilimento nonché alla libera prestazione dei servizi. E però ha convenuto sulla legittima possibilità che una normativa nazionale introduca restrizioni alla libera prestazione di servizi in considerazione di obiettivi specifici, come la lotta contro la criminalità e il controllo delle attività dei giochi di azzardo; e ha chiarito pure che spetta – in tale eventualità – ai giudici nazionali verificare se la normativa nazionale risponda realmente all’obiettivo mirante a prevenire l’esercizio delle attività in tale settore per fini criminali o fraudolenti.

L’univocità di tale complesso di principi appare di recente confortata sul versante della proroga delle concessioni e dei diritti derivanti dalla regolarizzazione dei centri di trasmissione dati (CTD).

Il tema, nello specifico segmento delle proroghe delle concessioni e dei diritti, è stato affrontato in correlazione con gli artt. 49 e 56 del TFUE.

Ne è derivato il principio per cui le citate norme del TFUE devono essere interpretate “nel senso che ostano ad una proroga delle concessioni nel settore dei giochi d’azzardo e dei diritti derivanti dalla regolarizzazione della situazione dei centri di trasmissione dati che già esercitavano, ad una certa data, attività di raccolta di scommesse a favore di allibratori esteri non titolari di una concessione e di una licenza di polizia, se e in quanto tale proroga, che può essere giustificata segnatamente da motivi imperativi di interesse generale come l’obiettivo di assicurare la continuità di un controllo sugli operatori di tale settore al fine di garantire la protezione dei consumatori, non sia idonea a garantire la realizzazione di tale obiettivo o vada oltre quanto è necessario per raggiungerlo”. A tal riguardo la difesa della ricorrente ha mosso una critica di non attinenza, perché ciò sarebbe stato affermato in rapporto al regime delle proroghe. Ma il discorso fatto per la proroga non può non valere anche per la concessione, e la valutazione di idoneità è ancora una volta rimessa al giudice nazionale. Ne consegue che l’impugnata sentenza resiste ai motivi di doglianza. E non è necessario il rinvio pregiudiziale ancora sollecitato dalla ricorrente, visto che oggi è ben individuabile un indirizzo consolidato della giurisprudenza comunitaria a proposito delle norme afferenti.

Gli apporti della Corte di giustizia già inducono a dire questo:

(a) devono considerarsi come restrizioni alla libertà di stabilimento e/o alla libera prestazione dei servizi tutte le misure che vietino, ostacolino o scoraggino l’esercizio delle libertà garantite dagli artt. 49 e 56 del TFUE (v. pure C. giust. 22-9-2022, cause riunite C-475/20 e seg., Admiral Gaming Network);

(b) qualora, in uno Stato membro, una società persegua l’attività di raccolta di scommesse per il tramite di agenzie stabilite in un altro Stato membro, le restrizioni imposte alle attività di queste agenzie costituiscono in linea di principio ostacoli alla libertà di stabilimento sancita dall’art. 49 del TFUE (come affermato dalla ricordata sentenza 6-11-2003, Gambelli);

(c) l’art. 56 del TFUE riguarda i servizi che un prestatore stabilito in uno Stato membro offre senza spostarsi ai destinatari stabiliti in un altro Stato membro, e quindi qualsiasi restrizione a tali attività costituisce una restrizione alla libera prestazione dei servizi da parte di tale prestatore (ancora C. giust. 6-11-2003, Gambelli, cui adde C. giust. 13-6-2017, causa C-591/15, The Gibraltar Betting and Gaming Association);

(d) tuttavia, il regime delle concessioni, delle proroghe e dei diritti risultanti dalla regolarizzazione della situazione dei CTD e degli allibratori, che impedisca a questi ultimi, se stabiliti in un altro Stato membro, di offrire i propri servizi nello Stato membro di cui si tratta, anche per il tramite dei CTD, pur costituendo una restrizione delle libertà fondamentali sancite dagli artt. 49 e 56 del TFUE, è ammissibile ove risolto in efficaci meccanismi di controllo degli operatori attivi nel settore (v. C. giust. 19-12-2018, causa C-375/17, cit., e anche, per i riflessi sul sistema impositivo fiscale, C. giust. 26-2-2020, causa C-788/18, Stanleyparma, C. giust. 2- 3-2023, Recreatieprojecten Zeeland BV);

(d) lo è in base alle deroghe espressamente previste dagli artt. 51 e 52 del TFUE, oppure in base a motivi imperativi di interesse generale (v. anche C. giust. 13-9-2007, causa C-260/04, Commissione c. Italia);

(e) gli obiettivi di protezione dei consumatori, di prevenzione delle frodi e di incitamento dei cittadini a spese eccessive legate al gioco, nonché della prevenzione di turbative dell’ordine sociale in generale, rientrano tra i motivi imperativi di interesse generale suscettibili di giustificare anche le restrizioni alle libertà fondamentali sancite dagli artt. 49 e 56 del TFUE, essendo gli Stati membri liberi di fissare gli obiettivi della loro politica in materia di giochi d’azzardo e di definire con precisione il livello di protezione ricercato, col solo limite del rispetto delle condizioni di proporzionalità (ancora C. giust., 13-9-2007, Commissione c. Italia e la giurisprudenza ulteriormente citata).

 

È ragionevole affermare – conclude la Corte Suprema – che i soggetti che, in questo settore, intendano esercitare la loro attività in Italia vanno legittimamente assoggettati alle regole dalle quali è disciplinato il regime concessorio nazionale. La Corte d’Appello ha stabilito che l’accesso della Stanley al mercato italiano dei giochi e delle scommesse era stato impedito non da un atteggiamento discriminatorio fondato sulla regola di stabilimento, sebbene dal modus operandi della stessa Stanley, incentrato su intermediari diffusi capillarmente e difficilmente controllabili, come invece prescritto dalla normativa nazionale.

Si tratta di una valutazione di pieno merito, basata sulla ricognizione di un dato normativo ritenuto non in contrasto col diritto dei trattati; valutazione altrimenti censurata per il tramite dell’asserita assoluta trasparenza dell’attività di Stanley e dei CTD a lei affiliati, ma senza considerare che in tal senso la censura riflette una connotazione inammissibile, perché travalica i confini del giudizio di legittimità essendo risolta in una diametrale contrapposizione all’accertamento di fatto istituzionalmente riservato al giudice del merito”.

La Corte, a sezioni unite, ha quindi rigettato il ricorso principale e dichiarato assorbito l’incidentale condizionato condannando la ricorrente alle spese processuali per il valore di 200.000,00 euro.

 

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