La normativa italiana che obbliga gli organismi di attestazione ad avere la sede legale in Italia è contraria al diritto dell’Unione. Tale requisito non può essere giustificato. La «direttiva servizi» vieta
La normativa italiana che obbliga gli organismi di attestazione ad avere la sede legale in Italia è contraria al diritto dell’Unione. Tale requisito non può essere giustificato.
La «direttiva servizi» vieta agli Stati membri, da un lato, di subordinare l’esercizio di un’attività di servizi sul proprio territorio al rispetto di requisiti discriminatori fondati sulla nazionalità oppure sull’ubicazione della sede legale e, dall’altro, di limitare la libertà del prestatore di scegliere tra essere stabilito a titolo principale o secondario sul territorio di uno Stato membro.
La SOA Rina Organismo di Attestazione SpA è una società per azioni con sede a Genova. Tale società provvede all’attestazione e allo svolgimento di controlli tecnici sull’organizzazione e sulla produzione delle imprese di costruzione ed è detenuta per il 99% dalla Rina SpA (holding del gruppo) e per l’1% dalla Rina Services SpA. Il suo oggetto sociale consiste nella fornitura di servizi di certificazione di qualità UNI CEI EN 45000.
Le suddette tre società hanno contestato in via giudiziale la legittimità della normativa italiana in forza della quale la sede legale di una società organismo di attestazione (SOA) deve essere ubicata nel territorio italiano.
La Presidenza del Consiglio dei Ministri e altre parti hanno fatto valere che l’attività svolta dalle SOA partecipa all’esercizio di poteri pubblici e che, di conseguenza, è sottratta all’ambito di applicazione sia della direttiva che del TFUE.
Chiamato a decidere tale controversia, il Consiglio di Stato chiede alla Corte, in sostanza, se il diritto dell’Unione ammetta l’esistenza di una normativa che imponga alle SOA di avere la loro sede legale nel territorio nazionale.
Nell’odierna sentenza, la Corte ricorda che i servizi di attestazione rientrano nell’ambito di applicazione della direttiva «servizi» e che le SOA sono imprese a scopo di lucro che esercitano le loro attività in condizioni di concorrenza e che non dispongono di alcun potere decisionale connesso all’esercizio di poteri pubblici. Le attività di attestazione delle SOA non configurano una partecipazione diretta e specifica all’esercizio di poteri pubblici.
Il fatto di imporre che la sede legale del prestatore sia ubicata nel territorio nazionale limita la libertà di quest’ultimo e lo obbliga ad avere il suo stabilimento principale nel territorio nazionale.
La Corte sottolinea che, in materia di libertà di stabilimento, la direttiva elenca una serie di requisiti «vietati» (tra cui figurano quelli riguardanti l’ubicazione della sede legale), i quali non possono essere giustificati. Infatti, la direttiva non consente agli Stati membri di giustificare il mantenimento di tali requisiti nelle loro normative nazionali.
Gli Stati membri non possono giustificare, neppure in forza dei principi contenuti nel Trattato FUE, ciò che è vietato dalla direttiva, dato che ciò priverebbe quest’ultima di ogni effetto utile e pregiudicherebbe, in definitiva, l’armonizzazione da essa operata. Infatti, un’eventuale giustificazione basata sui principi del Trattato FUE contrasterebbe con lo spirito della direttiva, ai sensi della quale non è possibile eliminare gli ostacoli alla libertà di stabilimento soltanto grazie all’applicazione diretta delle disposizioni del Trattato FUE, a motivo dell’estrema complessità della verifica caso per caso di tali ostacoli. Orbene, ammettere che i requisiti «vietati» dalla direttiva possano comunque essere giustificati in forza del Trattato equivarrebbe a reintrodurre proprio un siffatto esame caso per caso delle restrizioni alla libertà di stabilimento.
Inoltre, il Trattato FUE non impedisce al legislatore dell’Unione, quando adotta una direttiva che, come la «direttiva servizi», implementa una libertà fondamentale, di limitare la possibilità per gli Stati membri di apportare deroghe atte a causare un grave pregiudizio al buon funzionamento del mercato interno.
In conclusione, la Corte dichiara che la direttiva «servizi» non ammette una normativa nazionale che impone a tali organismi di avere la loro sede legale nel territorio nazionale.
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