24 Novembre 2024 - 18:24

Imposta unica scommesse CTD: in GU le ordinanze che rinviano alla Corte Costituzionale

In Gazzetta Ufficiale le ordinanza del 17 dicembre 2015 della Commissione tributaria provinciale di Rieti sul ricorso proposto contro l’Agenzia delle dogane e Monopoli, sull’imposta unica sulle scommesse – Soggettivita’

31 Marzo 2016

In Gazzetta Ufficiale le ordinanza del 17 dicembre 2015 della Commissione tributaria provinciale di Rieti sul ricorso proposto contro l’Agenzia delle dogane e Monopoli, sull’imposta unica sulle scommesse – Soggettivita’ passiva dei centri di raccolta dati (o CTD ) operanti come ricevitorie per conto del bookmaker estero che rinviano alla Corte costituzionale la questione di legittimita’ costituzionale degli articoli 3 e 4 comma 1, lettera b) numero 3 del d.lgs. 504/1998 e art. 1 comma 66  lettera  b)  della  legge  n.  220  del  2010,  in relazione agli articoli 3, 53 della Costituzione, nella parte in  cui vengono interpretati come applicabili ai  centri  di  raccolta  dati, facendo di questi ultimi dei soggetti  passivi  della  imposta  unica sulle scommesse.

Di seguito una delle ordinanze:

 

LA COMMISSIONE TRIBUTARIA PROVINCIALE DI RIETI

Sezione 2

 

Ha emesso la seguente ordinanza sul ricorso n.  84/2014,  spedito

il  16/04/2014  avverso  avviso  di  accertamento  n.   MUP080000460U

GIOCHI-LOTTERIE 2008.

Contro:  AG.  Dogane  e  Monopoli  Sezione  Operativa  di  Rieti,

proposto dal ricorrente: xxxx

02021 Borgorose RI difeso da: avv. Gazzo Massimiliano  presso  Studio

legale De Berti Jacchia Franchini Forlani via  San  Paolo,7  –  20121

Milano MI.

La Commissione, a scioglimento della riserva;

Letti gli atti;

 

Osserva

 

  1. La ricorrente gestisce un centro di raccolta delle scommesse,

per  conto  di  Stanley  International,  che,  per  quanto   riguarda

l’Italia, ha ceduto il ramo di azienda relativo  ai  giochi  ed  alle

scommesse, a Stanleybet Malta Limited.

In particolare, la ricorrente ha con la Stanley un  contratto  di

ricevitoria, in base al quale  raccoglie  le  scommesse  dei  singoli

scommettitori e le  trasmette  a  Stanley,  pagando  poi  l’eventuale

vincita. In sostanza, il giocatore prende visione, all’interno  della

ricevitoria, delle proposte di scommessa fatte da Stanley (in  genere

su un monitor telematico), compila una schedina con la scommessa  che

intende accettare e la consegna al ricevitore, il quale la  trasmette

a  Stanley.  Quando  quest’ultimo  ha  ricevuto  la  volonta’   dello

scommettitore, quello e’ il momento in cui si conclude il contratto.

Se il giocatore vince, la  somma  viene  pagata  direttamente  da

Stanley.

Cosi’ che la ricevitoria non e’  il  soggetto  che  organizza  le

scommesse, in quanto non stabilisce su cosa e per quanto  scommettere

e non decide quale sia la vincita da corrispondere al giocatore.

L’organizzatore della scommessa e’ il bookmaker (nel nostro  caso

Stanley) mentre la ricevitoria funge da centro  di  trasmissione  dei

dati necessari alla conclusione del gioco.

  1. L’Agenzia delle Entrate pretende il pagamento  della  imposta

sulle scommesse anche dal ricevitore.

Cio’ fa sulla base dell’art. 3 d.lgs. 504/1998 come  interpretato

dall’art. 1 comma 66, lettera B) legge 220/2010.

La prima  delle  due  norme  stabilisce  che:  “soggetti  passivi

dell’imposta  unica  sono   coloro   quali   gestiscono,   anche   in

concessione, i concorsi pronostici e le scommesse”. Norma oggetto  di

interpretazione autentica da parte dell’art. 1, e 66,  lett.  b),  L.

220/2010, che, allo scopo di eliminare ogni dubbio sull’equiparazione

delle scommesse  offerte  dagli  allibratori  muniti  di  concessione

italiana  rispetto  a  quelli  residenti  in   altro   Stato   Membro

dell’Unione europea, ed operanti con modali transfrontaliera, che  ne

sono privi (cfr. art. 1, co. 6 L. 220/2010),  ha  disposto  che  “…

l’art. 3 del  decreto  legislativo  23  dicembre  1998,  n.  504,  si

interpreta nel senso che  soggetto  passivo  d’imposta  e’  chiunque,

ancorche’ in assenza … della concessione rilasciata  dal  Ministero

dell’economia e delle finanze – Amministrazione autonoma dei monopoli

di Stato – gestisce con qualunque mezzo, anche telematico, per  conto

proprio o di terzi, anche ubicati all’estero, concorsi  pronostici  o

scommesse di qualsiasi genere. Se l’attivita’ e’ esercitata per conto

terzi, il soggetto per conto del  quale  l'”attivita’  esercitata  e’

obbligato solidalmente al pagamento  dell’imposta  e  delle  relative

sanzioni”.

Sulla base di questa ultima norma, l’Agenzia ritiene che i centri

di raccolta dati siano “gestori” di scommesse per conto terzi,  ossia

per conto dei bookmaker (nel nostro caso per conto di  Stanley),  con

la conseguenza di essere soggetti passivi di imposta.

  1. La questione se i  centri  di  raccolta  dati  siano  o  meno

soggetti passivi di imposta e’ stata posta al giudice  tributario  in

occasioni diverse. Allo  stato  prevale  la  tesi  affermativa,  che,

ritenendo che i centri di raccolta dati “gestiscono”  per  conto  dei

bookmaker le scommesse, ritiene che essi  ricadano  nella  previsione

dell’art. 1 comma 66 legge 220/ 2010, e dunque siano soggetti passivi

dell’imposta. Con i centri di raccolta e’ conseguentemente  obbligato

in via solidale il bookmaker di riferimento.

Questa tesi, per come anche documentato in atti, essendo di  gran

lunga piu’ diffusa della tesi contraria, costituisce, allo stato,  il

diritto vivente, o comunque  costituisce  l’interpretazione  corrente

del combinato disposto (art. 3 d.lgs. n. 504 del 1998 e art. 1  comma

66 l. 220/2010) in tema di soggetti passivi dell’imposta di consumo.

Questa interpretazione  e’  pero’  sospettata  di  illegittimita’

costituzionale per le ragioni, evidenziate dalla ricorrente,  che  si

andranno ad evidenziare  in  seguito  e  che  questa  Commissione  fa

proprie, condividendole.

  1. La rilevanza della questione.

La ricorrente (centro di raccolta dati) contesta di dovere pagare

l’imposta di consumo, meglio, contesta che le due  norme  suindicate,

si possano riferire alla sua attivita’. E’ di tutta  evidenza  dunque

che, per poter decidere il ricorso  (se  la  ricorrente  sia  o  meno

soggetto d’imposta)  deve  farsi  applicazione  di  quelle  norme,  e

precisamente,  della  prima,  quale   formulazione   originaria   del

precetto, della seconda quale interpretazione autentica del medesimo.

Se la norme vengono intese nel  senso  che  le  ricevitorie  sono

soggetti passivi  d’imposta,  il  ricorso  dovra’  essere  rigettato,

viceversa  se  le  norme  sono  intese  come  non   riferibili   alle

ricevitorie, il ricorso andra’ accolto.

Si intuisce, senza bisogno di alcuna altra argomentazione, che la

decisione dipende dalla  interpretazione  che  si  vorra’  dare  alle

suddette disposizioni. E tuttavia non si tratta di scegliere tra  due

interpretazioni diverse, cosi’ che la questione non e’ solo  di  tipo

interpretativo. Come si e’ detto opinione corrente ha gia’ scelto una

interpretazione  (e  la  norma,  come  e’  noto,  e’  l’esito   della

interpretazione). Questa Commissione dunque prende  atto  che  esiste

un’interpretazione corrente, che porta a ritenere le ricevitorie come

obbligate al pagamento dell’imposta, ma  ritiene  altresi’  che  tale

interpretazione corrente produca una norma incostituzionale.  Dunque,

la rilevanza della questione e’ nel fatto che la norma,  quale  esito

dell’interpretazione corrente di quelle disposizioni,  e’  nel  senso

della imponibilita’ e che la causa non  puo’  essere  decisa  se  non

applicandola.

Piu’ precisamente.

Si’ puo’ obiettare che  e’  allora  sufficiente  che  il  giudice

scelga l’una o l’altra delle suddette interpretazioni per decidere la

causa,  senza  bisogno  che   sollevi   questione   di   legittimita’

costituzionale.

O, piu’ precisamente, si puo’ obiettare che  questo  giudice  non

puo’ sollevare la questione senza avere prima sondato la possibilita’

di  una  interpretazione  della  norma  in  un   senso   conforme   a

Costituzione.

Va osservato al riguardo, quanto a questo ultimo aspetto, che qui

la rilevanza della questione e’ data dalla possibilita’ che la  norma

si riferisca anche  alle  ricevitorie  quali  soggetti  d’imposta.  E

l’unica opzione interpretativa che e’ rimessa al giudice e’  solo  di

ritenere applicabile o meno la suddetta disciplina anche ai centri di

raccolta delle scommesse.

Se  il  giudice  decide  che  la  norma  non  si   applica   alle

ricevitorie,   non   fa   un’interpretazione   compatibile   con   la

Costituzione, piuttosto esclude semplicemente che la norma,  conforme

o meno che sia alla Costituzione, non si applica affatto al suo caso.

La necessita’ di sondare se vi sia un’interpretazione compatibile

con la Costituzione sorge solo dopo che il giudice avra’  deciso  che

la norma si applica  anche  alle  ricevitorie.  Solo  a  quel  punto,

ritenuta applicabile la norma, e dunque scelta l’interpretazione  che

conduce a quell’esito, potrebbe essere obbligo del giudice verificare

se vi sia un’interpretazione possibile che renda la norma compatibile

con la Costituzione.

A ben vedere pero’ il giudice rimettente non e’ obbligato ad  una

tale verifica quando  l’interpretazione  della cui  costituzionalita’

egli dubita, costituisce  diritto  vivente,  e’,  in  altri  termini,

un’interpretazione seguita  correntemente  nella  giurisprudenza.  E’

regola piu’ volte affermata che: “in presenza di un  diritto  vivente

non condiviso dal giudice a quo perche’  ritenuto  costituzionalmente

illegittimo, questi ha la facolta’ di optare tra  l’adozione,  sempre

consentita, di una diversa interpretazione, oppure –  adeguandosi  al

diritto vivente – la proposizione della questione  davanti  a  questa

Corte; mentre e’ in assenza di un contrario diritto  vivente  che  il

giudice rimettente ha il dovere di seguire l’interpretazione ritenuta

piu’ adeguata ai principi costituzionali (cfr. ex  plurimis  sentenze

  1. 226 del 1994, n. 296 del 1995 e n. 307 del 1996 e da ultimo n. 113

del 2015)”.

Nel caso presente, le corti di merito  (non  v’e’  ancora  alcuna

pronuncia della Corte di Cassazione)  sono  quasi  unanimemente,  con

pochissime eccezioni, orientate verso la tesi per  cui  la  norma  si

applica alle ricevitorie, considerandole soggetti passivi  d’imposta.

E l’orientamento sta ricevendo l’avallo delle  Commissioni  Regionali

(CTR Bari n. 769/13/2015; CTR Milano n. 1458/15/2015. CTR  Napoli  n.

4615/17/2015).

  1. La questione poi non appare manifestamente infondata.

E’ regola che il requisito della non manifesta  infondatezza  non

comporta che il giudice sia convinto della piena  fondatezza,  ma  e’

sufficiente   che   abbia   oggettive   ragioni   di   dubbio   sulla

costituzionalita’ della norma  (Corte  cost.  143  del  1982)  per  i

seguenti

 

Motivi

 

  1. Violazione dell’art. 53 comma 1 della Costituzione in relazione al

principio di capacita’ contributiva.

L’imposta sulle scommesse e’, per opinione  pacifica,  un’imposta

indiretta, che  colpisce  il  consumo  di  ricchezza  del  giocatore.

L’imposta  grava  sullo  scommettitore  anche  se  e’  riscossa   dal

concessionario e da  questi  girata  all’erario.  Di  conseguenza  la

capacita’ contributiva su  cui  e’  commisurata  l’imposta  unica  e’

quella dello scommettitore privato.

Il  consumo  della  scommessa  e’  dunque  indice  indiretto   di

capacita’ contributiva.

Come e’ tipico delle imposte  indirette,  l’onere  relativo  puo’

essere (dovrebbe essere) trasferito sul consumatore  della  ricchezza

tassata, ossia sul giocatore.

In sostanza, proprio  in  quanto  il  concessionario  non  e’  il

soggetto gravato dall’imposta, ma solo  colui  che  materialmente  ne

versa il gettito  all’erario,  egli  deve  poter  trasferire  l’onere

relativo sul soggetto  passivo,  ossia  sul  giocatore.  Diversamente

l’imposta, pensata per colpire il “consumo” della scommessa da  parte

dello scommettitore,  finisce  con  il  gravare  sul  concessionario,

tradendo la sua natura di imposta di consumo. Ne segue  che  soltanto

se l’imposta potra’  effettivamente  gravare  sul  consumatore  o  su

soggetto capace di trasferire a quest’ultimo l’onere relativo, potra’

ritenersi rispettato il criterio della capacita’ contributiva.

Se si intendono gli art. 3  d.lgs.  504/1998  e  1  comma  66  l.

220/2010 nel senso che la ricevitoria e’ un gestore per  conto  terzi

della scommessa, e dunque soggetto passivo d’imposta, l’esito  e’  la

violazione del principio di capacita’ contributiva.

In nessun modo  infatti  la  ricevitoria  potra’  traslare  sullo

scommettitore l’onere dell’imposta.

Non v’e’ alcuna norma infatti che consenta o imponga al centro di

elaborazione dati di rivalersi sullo scommettitore o di effettuare la

ritenuta sulle puntate ricevute o sulle vincite versate. Piuttosto la

disciplina amministrativa prevede il contrario (D.M. 111/2006).

La ricevitoria non puo’ effettuare una tale  traslazione  neanche

in via indiretta, ossia modificando le quote  di  scommessa,  poiche’

non ha alcun  potere  di  farlo,  essendo  le  quote,  cosi  come  le

percentuali di vincita  stabilite  direttamente  dal  bookmaker  (nel

nostro caso Stanley).

E del resto, di fatto,  il  contratto  tra  il  bookmaker  ed  il

ricevitore  vieta  a  quest’ultimo  ogni  forma  di  ingerenza  nella

determinazione della scommessa e delle quote relative.

Il centro elaborazione dati, ricevuta la  somma  da  parte  dello

scommettitore, deve  trasmetterla  al  bookmaker,  verso  cui  ha  un

obbligo di rendicontazione, cosi’ che in alcun  modo  la  ricevitoria

puo’ traslare sullo scommettitore (neanche  materialmente)  l’imposta

che,  secondo  l’interpretazione  corrente,  e’  tenuto   a   versare

all’erario.

Piu’ precisamente.

Alla ricevitoria (obbligato “principale”) e’ preclusa la facolta’

di rivalersi sul bookmaker (obbligato “dipendente”), per  l’esplicito

divieto dell’art. 64, co. 3, dPR  600/1973,  che  –  al  contrario  –

attribuisce il diritto di rivalsa all’obbligato “dipendente”, dunque,

al bookmaker. In  secondo  luogo,  quand’anche  fosse  superabile  il

disposto  del  predetto  art.  64,  co.  3,  del  dPR  600/1973,   la

rivalsa/regresso nei confronti dei bookmaker traslerebbe l’onere  del

tributo su un soggetto (il bookmaker, appunto) che  non  il  titolare

della capacita’  contributiva  destinata  dal  Legislatore  a  venire

incisa (lo scommettitore).

Ne segue che l’attribuzione al titolare di ricevitoria dell’onere

dell’Imposta  Unica  viola  il  dettato  costituzionale,  in   quanto

colpisce un soggetto  che  non  possiede  la  capacita’  contributiva

individuata  dal  Legislatore  quale  fatto  generatore  del  tributo

(consumo di ricchezza nelle scommesse) e che,  al  contempo,  non  ha

alcuna possibilita’ di traslarne  l’onere  su  chi  la  possiede  (lo

scommettitore).

  1. Violazione del principio di uguaglianza di cui all’art. 3  della

Costituzione.

Le disposizioni denunciate pongono il medesimo  carico  d’imposta

sul “gestore per conto proprio” (il bookmaker)  e  sul  “gestore  per

conto  terzi”  (il  titolare  di  ricevitoria),   accomunando   cosi’

situazioni oggettivamente diverse sotto molteplici profili.

Innanzitutto, l’attivita’  del  bookmaker  e’  astrattamente,  ma

anche di  fatto,  diversa  da  quella  svolta  per  suo  conto  dalla

ricevitoria.  Mentre  il  bookmaker  sceglie  gli  eventi  su  cui  i

giocatori  sono   invitati   a   effettuare   scommesse   (cosiddetto

“palinsesto” ovvero “programma di accettazione” ai sensi dell’art. 5,

  1. 4, D.M. 111/2006), fissa le quote delle scommesse (vale a dire,

il loro prezzo) e le loro  condizioni  contrattuali  e,  come  visto,

stipula in nome  proprio  i  contratti  di  scommessa  assumendone  i

diritti e gli obblighi, la  ricevitoria  si  limita  a  fornirgli  il

supporto logistico esterno, mettendolo in contatto  materiale  con  i

giocatori, trasmettendo le  rispettive  volonta’  contrattuali  ed  i

relativi flussi di provvista, e, in  definitiva,  eseguendo  tutte  e

soltanto le direttive e le istruzioni ricevute dal bookmaker.  Nessun

ruolo, al contrario, ha la ricevitoria  con  riferimento  alle  altre

fasi  economico-giuridiche  della  scommessa:  non   partecipa   alla

formazione  del  palinsesto  di  gioco,  ne’  alla  quotazione  delle

scommesse; e’ soggetto  terzo  rispetto  al  contratto  di  scommessa

stipulato tra i bookmaker ed il giocatore; non  vanta  diritti  sulla

puntata; non risponde delle vincite;  ed,  infine,  ha  l’obbligo  di

pagarle, non gia’ a titolo  e  con  provvista  propri,  e  bensi’  in

esecuzione del mandato ricevuto da  parte  del  bookmaker  e  con  la

provvista  da  lui  fornita.  Il  bookmaker  e’  il  mandante   della

ricevitoria, dei cui incarichi quest’ultima e’ mera esecutrice.

Non meno diverse sono le utilita’ ritratte dai due soggetti dalla

loro  attivita’.  Mentre,  infatti,  il  ricavo  del   bookmaker   e’

costituito  dal  valore  delle  scommesse  stipulate,  quello   della

ricevitoria e’ dato dalla provvigione che il bookmaker gli riconosce.

Dal punto di vista  strettamente  tributario,  vale  la  pena  di

evidenziare l’effettivo rapporto sussistente tra i due  soggetti  nei

confronti del presupposto d’imposta, che, lo si ricorda, C. Cost.  n.

350/2007  ha  individuato  nel  contratto  di  scommessa.  Mentre  il

bookmaker e’ parte del contratto di  scommessa  ed  e’  titolare  dei

diritti (incameramento delle puntate)  e  degli  obblighi  (pagamento

delle  vincite)  che  ne  conseguono,  la  ricevitoria  si  limita  a

“ricevere le schede di partecipazione e riscuotere le poste da  parte

dei  concorrenti  …”  per  conto  del  primo  (come  esplicitamente

previsto dall’art. 55, dPR n. 581/1951), al  contratto  di  scommessa

rimanendo completamente estranea.

Diverso e’ anche il  rapporto  con  la  provvista  versata  dallo

scommettitore. Mentre, infatti, il bookmaker ne’ e’  il  proprietario

ed e’ munito del potere giuridico di disporne, la ricevitoria  e’  un

mero mandatario all’incasso con precisi obblighi di  rendicontazione,

e con l’obbligo  di  riversare  al  primo  tutto  quanto  ricevuto  e

movimentato, al netto delle sole vincite pagate ai  giocatori  e,  in

via di compensazione,  delle  provvigioni  maturate  a  corrispettivo

della propria attivita’.

Infine,  anche   con   specifico   riferimento   alla   capacita’

contributiva destinata a venire incisa (quella dello  scommettitore),

la posizione del bookmaker e’ profondamente diversa da  quella  della

ricevitoria. Mentre il primo puo’ realizzare la volonta’  legislativa

di incidere  la  ricchezza  dello  scommettitore,  e  mediante  quote

(ovvero  “prezzi”  della  scommessa)  meno  favorevoli  e,  comunque,

rinvenire la provvista necessaria all’assolvimento del tributo  nelle

puntate  raccolte,  cio’  non  e’  sicuramente   possibile   per   il

ricevitore, a motivo dell’assenza di rapporti giuridici e/o economici

con lo scommettitore.

La giurisprudenza di merito (ad es. CTP Napoli, n. 29890/30/2014)

ha tentato di superare  quest’ultima  obiezione,  affermando  che  il

titolare di ricevitoria potrebbe  liberarsi  dell’onere  dell’imposta

mediante appositi accordi con il bookmaker che  lo  autorizzassero  a

prelevare l’imposta dalla puntata. La tesi, tuttavia, non ha  pregio,

per due ordini di ragioni. In primo luogo, la necessita’ di un simile

accordo, lungi dal  giustificare  la  discriminazione  lamentata,  la

conferma, in quanto evidenzia l’inidoneita’ della norma  a  garantire

da  sola  la  ragionevolezza  della  discriminazione  (senza,  cioe’,

l’intervento  di  atti  di  autonomia  contrattuale,   rimessi   alla

convenienza e alla forza imprenditoriale  dei  privati).  In  secondo

luogo, alla traslazione dell’onere tributario dal “gestore per  conto

terzi”  (ricevitoria)   sul   terzo   beneficiario   della   gestione

(bookmaker), come gia’ visto, osta il fatto che la responsabilita’ di

quest’ultimo ha natura “dipendente” ed e’, quindi,  accompagnata  dal

diritto di rivalsa nei confronti  del responsabile  “principale”  (il

“gestore per conto terzi”) ex art. 64, co. 3, dPR 600/1973.

Posto, quindi, che  bookmaker  e  titolare  di  ricevitoria  sono

soggetti radicalmente diversi, la loro  equiparazione  dal  punto  di

vista della responsabilita’ tributaria non puo’  trovare  ragionevole

giustificazione e si risolve  in  una  discriminazione  contraria  al

principio di uguaglianza.

Infine, a sostegno dell’assoggettamento all’imposta del  titolare

di ricevitoria, neppure  potra’  invocarsi  un’esigenza  di  supposta

parita’  di  trattamento  fiscale  delle  scommesse  organizzate   da

soggetti titolari di concessione con quelle organizzate  da  soggetti

privi di tale titolo. Al contrario, e’ proprio  l’attribuzione  della

soggettivita’ passiva alla  ricevitoria,  per  definizione  priva  di

concessione,  a  violare  tale  principio.   Infatti,   nel   sistema

concessorio, l’unico soggetto passivo e’  l’allibratore  titolare  di

concessione (cfr.  art.  16,  D.M.  111/2006),  e  giammai  la  “sua”

ricevitoria.

  1. Violazione del principio di  proporzionalita’  e  ragionevolezza

della legge di cui all’art. 3 della Costituzione.

Corollari del principio di uguaglianza tutelati dal medesimo art.

3  Cost.  sono  i  principi  di  ragionevolezza  delle  leggi  e   di

proporzionalita’ (cfr. ad es.  C.  Cost.  n.  2/1999  in  cui  si  e’

giudicato che la disposizione ivi scrutinata era “…  irragionevole,

contrastando con il principio di proporzione, che e’ alla base  della

razionalita’ che informa il principio di  eguaglianza  …”).  Questi

principi  si  sostanziano  nel  rapporto  che  deve  sussistere   tra

l’obiettivo della norma ed i mezzi che il Legislatore  ha  approntato

per il suo raggiungimento, essendo sufficiente,  per  dubitare  della

sua   costituzionalita’,   il   riscontro   della   sua    intrinseca

irragionevolezza (cfr. C. Cost. n. 104/2003[8]), senza necessita’  di

rinvenire alcun tertium comparationis (cfr. C. Cost. n. 23/2011[9]).

Conseguentemente, la norma sara’ intrinsecamente irragionevole  e

non proporzionale se, da un lato, e’ inidonea a realizzare i fini che

dovrebbero giustificarla e, dall’altro, comprime in modo  abnorme  od

eccessivo altri diritti costituzionalmente tutelati.

Esemplarmente C. Cost. n. 89/1996 ha giudicato che  il  “test  di

ragionevolezza” costituisce “… un apprezzamento di conformita’  tra

la regola introdotta e la «causa» normativa che  la  deve  assistere:

ove la disciplina positiva si discosti dalla funzione che  la  stessa

e’ chiamata a svolgere nel sistema e ometta, quindi,  di  operare  il

doveroso  bilanciamento  dei  valori  che   in   concreto   risultano

coinvolti, sara’ la  stessa  «ragione»  della  norma  a  venir  meno,

introducendo  una  selezione  di  regime  giuridico  priva  di  causa

giustificativa  e,  dunque,  fondata   su   scelte   arbitrarie   che

ineluttabilmente perturbano il canone dell’eguaglianza.

Ogni tessuto normativo deve anzi  presentare,  una  «motivazione»

obiettivata nel sistema, che si manifesta come entita’ tipizzante del

tutto avulsa dai  «motivi»,  storicamente  contingenti,  che  possono

avere indotto il legislatore a formulare una  specifica  opzione:  se

dall’analisi di  tale  motivazione  scaturira’  la  verifica  di  una

carenza di «causa» o «ragione» della disciplina introdotta, allora  e

soltanto allora potra’ dirsi  realizzato  un  vizio  di  legittimita’

costituzionale   della   norma,   proprio   perche’   fondato   sulla

«irragionevole» e per cio’ stesso arbitraria scelta di introdurre  un

regime che necessariamente finisce per omologare fra loro  situazioni

diverse  o,  al  contrario,  per  differenziare  il  trattamento   di

situazioni analoghe  …”  (cfr.  altresi’  ex  multis  C.  Cost.  n.

245/2007).

I predetti principi  sono  stati  ripetutamente  applicati  dalla

Consulta anche in materia fiscale, ad esempio, con  le  sentenze  nn.

281/2011 e 10/2015.

Con la prima e’ stata dichiarata l’illegittimita’  costituzionale

dell’art. 85, co. 1, del dPR 29 settembre 1973; n. 602, in materia di

riscossione tributaria, nella parte in cui prevedeva che il valore di

assegnazione allo  Stato  del  bene  pignorato  all’esito  del  terzo

incanto  negativo  fosse  svincolato  da  quello  di  mercato.   Tale

decisione riposa sul giudizio di irragionevolezza del Legislatore nel

prevedere che il valore di espropriazione del bene era individuato in

maniera del tutto avulsa  rispetto  al  suo  reale  valore;  e  cio’,

nonostante che il trasferimento immobiliare  abbia  la  finalita’  di

trasformare il bene in denaro per il soddisfacimento dei creditori  e

non  certo  di  infliggere   una   sanzione   atipica   al   debitore

inadempiente.

Pertinente e’ anche la recentissima C. Cost. n.  10/2015  che  ha

dichiarato l’incostituzionalita’ della ed. Robin , Hood tax (art. 81,

  1. 16, 17 e 18, D.L. n. 112/2008), giudicata irrazionale per la sua

inidoneita’ a conseguire il  duplice  obiettivo  che  avrebbe  dovuto

giustificarla; vale a dire, da  un  lato,  la  tassazione  dell’extra

profitto derivante ai petrolieri dalle particolari conformazioni  del

mercato  e,  dall’altro,  la   salvaguardia   degli   interessi   dei

consumatori mediante il divieto di traslazione.

Con riferimento al test di proporzionalita’, la Corte ha chiarito

che esso  si  risolve  nel  necessario  contemperamento  dei  diversi

principi e valori di rango costituzionale coinvolti; contemperamento,

da  considerarsi  diretta  espressione   del   generale   canone   di

ragionevolezza (C. Cost. n.  220/1995).  Infatti,  “…  il  test  di

proporzionalita’,  utilizzato  …  spesso  insieme  con  quello   di

ragionevolezza … richiede  di  valutare  se  la  norma  oggetto  di

scrutinio, con la misura e le modalita’  di  applicazione  stabilite,

sia necessaria e idonea al conseguimento di obiettivi  legittimamente

perseguiti, in quanto, tra piu’ misure appropriate, prescriva  quella

meno restrittiva dei diritti  a  confronto  e  stabilisca  oneri  non

sproporzionati rispetto al perseguimento di detti obiettivi …”  (C.

Cost. n. 1/2014).

Al proposito, si rammenti che l’intervento legislativo  del  2010

trovava il suo esplicito  obiettivo  nella  volonta’  legislativa  di

equiparare  la  tassazione  delle  scommesse  offerte  dai  bookmaker

nazionali muniti di concessione a quella dei bookmaker (per  lo  piu’

esteri)  che  ne  erano  privi,  “…  garantendo  altresi’  maggiore

effettivita’ al principio di lealta’ fiscale nel settore del gioco  e

recuperando base  imponibile  e  gettito  a  fronte  di  fenomeni  di

elusione ed evasione fiscali nel medesimo settore …” (cfr. art.  1,

  1. 64, L. 220/2010). Ebbene, le considerazioni svolte nei paragrafi

che precedono dimostrano come  tali  finalita’,  seppur  in  astratto

idonee a giustificare con  il  tributo  l’incisione  del  diritto  di

proprieta’  del  contribuente,  non  vengano  affatto  realizzate  in

concreto  dall’intervento   normativo   del   2010   e   dall’assetto

dell’Imposta Unica che ne e’ derivato.

In primo luogo, l’intervento non  realizza  alcuna  equiparazione

soggettiva tra gli operatori  del  mercato,  non  proponendo  affatto

un’equazione fra  ricevitori  “fuori  concessione”  (quale  l’odierna

ricorrente) e ricevitori “in concessione”, ne’ dei bookmaker ”  fuori

concessione”  (come  quelli  esteri)  a  bookmaker  “in  concessione”

(cioe’, i concessionari nazionali).

Quanto  ai  ricevitori,  e’  agevole  osservare  che  quelli  “in

concessione” non vengono mai chiamati ad alcun versamento a titolo di

Imposta Unica. A riprova di cio’, il D.M. 111/2006, mentre all’art. 2

ammette   esplicitamente   che   l’allibratore/concessionario   possa

avvalersi di ricevitorie (denominate i luoghi di vendita”) , all’art.

16 riconosce non meno chiaramente l’allibratore /concessionario  come

unico debitore  dell’imposta,  prevedendo  addirittura  le  modalita’

pratiche con cui essa deve venire  assolta  (“…  il  concessionario

effettua il pagamento delle somme dovute, a titolo di  imposta  unica

nonche’ le vincite ed i rimborsi non riscossi  di  cui  all’art.  20,

comma 2, con le modalita’ stabilite dal decreto del Presidente  della

Repubblica 8 marzo 2002, n. 66 …”).

Quanto, invece,  alla  posizione  dei  bookmaker,  mentre  quelli

titolari di concessione sono obbligati al pagamento, quelli privi  di

concessione che si  avvalgono  di  ricevitorie  (come,  nel  caso  di

specie, Stanleybet) non sono  assoggettati  al  medesimo  obbligo.  A

questi ultimi, infatti, che secondo il modello  della  “gestione  per

conto terzi” sono meri obbligati “dipendenti”, l’art. 64, co. 3,  dPR

600/1973 attribuisce il diritto di regresso integrale  nei  confronti

della ricevitoria.

In  secondo  luogo,   non   e’   realizzato   neppure   l’effetto

dell’equiparazione fiscale delle scommesse “in concessione”  rispetto

a quelle “fuori concessione” e, quindi, del “… recuper[o  di]  base

imponibile e di gettito a fronte di fenomeni di elusione ed  evasione

fiscali …”. Si e’ visto, infatti, che il  titolare  di  ricevitoria

cui e’ addossato l’onere dell’imposta non ha alcuna  possibilita’  di

traslarlo sugli scommettitori;  e,  pertanto,  se  mai  le  scommesse

“fuori concessione”  fossero  state  davvero  stipulare  in  evasione

d’imposta prima della L. 220/2010, tale situazione non e’ sicuramente

cambiata a tutt’oggi.

L’inidoneita’ degli strumenti approntati dalla  L.  220/2010  per

raggiungere gli obiettivi dichiarati dal Legislatore  (sottoposizione

alla medesima contribuzione  delle  scommesse  offerte  da  qualunque

allibratore e, quindi, realizzazione dell’equa contribuzione  di  cui

all’art. 53 Cost.) e’, dunque, di solare evidenza.

Ma, all’irragionevolezza della novellazione introdotta  dall’art.

1, comma 66, lett. b) , della L. 220/2010 nel contesto della presente

causa si perviene,  oltre  che  sul  piano  intrinseco,  anche  nella

diversa prospettiva della retroattivita’. Se e’ vero che non sussiste

un divieto costituzionale delle leggi extrapenali  retroattive  (art.

25 Cost.), queste soggiacciono pero’ ad un piu’ penetrante scrutinio,

a salvaguardia dei “… fondamentali  valori  di  civilta’  giuridica

posti  a  tutela  dei  destinatari  della  norma   e   dello   stesso

ordinamento, tra i quali vanno ricompresi il rispetto  del  principio

generale  di  ragionevolezza   e   di   eguaglianza,[e]   di   tutela

dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti,  quale  principio

connaturato allo Stato di diritto …” (C. Cost. n. 282/2005; nonche’

  1. Cost. n. 156/2007). Il criterio  della  costituzionalita’  delle

leggi retroattive in materia extra-penale si  riconduce,  ancora  una

volta, alla loro ragionevolezza. In punto, C. Cost.  n.  416/1999  ha

giudicato:  “…  Il   legislatore   ha   il   potere   di   regolare

autonomamente, sulla base dell’art. 10  Cost.,  situazioni  pregresse

…  in  quanto  il  divieto  di  retroattivita’  della  legge,   pur

costituendo fondamentale valore di  civilta’  giuridica  e  principio

generale  dell’ordinamento  …  non  e’  stato  elevato  a  dignita’

costituzionale, eccettuata la previsione dell’art. 25 Cost.  relativa

alla legge penale,  sicche’,  fuori  da  tale  ultima  materia,  puo’

emanare norme con efficacia retroattiva, a condizione che [anche]  la

retroattivita’ sia giustificata sul piano della ragionevolezza e  non

si ponga in contrasto con altri valori e interessi costituzionalmente

protetti (sent. n. 229 del 1999; sent. n. 211 del 1997,  n.  390  del

1995), tra i quali e’  compreso  l’affidamento  del  cittadino  nella

sicurezza giuridica …” (Conformi, ex multis, C. Cost. n.  419/2000;

  1. Cost. n. 446/2002).

La speciale sensitivita’ costituzionale della retroattivita’  che

e’ insita nelle leggi interpretative e’ questione ben nota ai Giudici

delle Leggi. Ad esempio, C. Cost. n. 409/2005 ha statuito che “… al

di fuori della materia penale … cio’  che  conta  precipuamente  ai

fini del  sindacato  di  legittimita’  costituzionale  di  una  legge

retroattiva non e’ l’esistenza dei presupposti …  per  l’emanazione

di una legge interpretativa, quanto piuttosto la non irragionevolezza

della sua efficacia retroattiva  e  l’inesistenza  di  violazioni  di

altri principi costituzionali … questa Corte  ha  ritenuto  che  in

linea generale, l’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica

– essenziale elemento dello Stato di diritto non puo’ essere leso  da

disposizioni retroattive, che trasmodino in  regolamento  irrazionale

di situazioni sostanziali fondate su leggi  anteriori  (ex  plurimis,

sent. n. 446/2002)…”.

La soluzione  non  muta  neppure  per  le  leggi  formalmente  di

interpretazione autentica, come e’ il  casa  della  L.  220/2010.  C.

Cost.  n.  252/2000  ha  giudicato:  “…  siccome  la   disposizione

censurata  e’  norma  di  interpretazione  autentica  con   efficacia

retroattiva … e’ soggetta, tra gli altri, al  limite  del  rispetto

del  principio  dell’affidamento  dei   consociati   nella   certezza

dell’ordinamento giuridico …”.

Cio’ che conta, non e’ tanto la natura formale  o  dichiarata  di

legge  di  interpretazione   autentica,   e   percio’,   tecnicamente

retroattiva, quanto la sua “… adeguata  giustificazione  sul  piano

della ragionevolezza …” (C. Cost. n. 374/2002).  Si  veda  pure  C.

Cost. n. 274/2006, che ha precisato “… nel giudizio di legittimita’

costituzionale  delle  norme  di  interpretazione  autentica  non  e’

precisivo verificare  se  la  norma  abbia  carattere  effettivamente

interpretativo (e sia percio’ retroattiva) ovvero sia innovativa  con

efficacia retroattiva, in quanto il divieto di  retroattivita’  della

legge non e’ stato elevato a dignita’ costituzionale,  salva  per  la

materia penale la  previsione  dell’art.  25  cost.  …  purche’  la

retroattivita’  trovi  adeguata  giustificazione  sul   piano   della

ragionevolezza  e  non  contrasti  con  altri  valori  ed   interessi

costituzionalmente protetti …”.  Neppure  rileva,  infine,  che  la

norma di interpretazione autentica  venga  adottata  in  presenza  di

incertezze nell’applicazione di una precedente norma o  di  contrasti

giurisprudenziali, oppure fissi con la scelta legislativa  una  delle

possibili varianti interpretative  del  testo  originario;  cio’  che

conta e’ che l’interpretazione prescelta dal Legislatore,  che  cosi’

assurge a precetto positivo, “… non contrasti con  altri  valori  e

interessi    costituzionalmente    protetti    e    trovi    adeguata

giustificazione sul piano della  ragionevolezza  …”  (C.  Cost.  n.

160/2013).

  1. Impossibilita’ di   una   interpretazione   costituzionalmente

orientata.

Dalle motivazioni che precedono, esposte dalla ricorrente e fatte

proprie  da  queste   Commissione,   risulta   peraltro   impossibile

un’interpretazione   costituzionalmente   orientata    delle    norme

denunciate, intese come applicabili anche alle ricevitorie.

Se infatti si assume che anche il  centro  di  raccolta  dati  e’

soggetto passivo dell’imposta, gli effetti  che  si  sono  denunciati

come  incostituzionali  sono  inevitabili,   e   discendono   proprio

dall’avere  ricompreso  le  ricevitorie  tra  i  soggetti  tenuti  al

pagamento del tributo.

In altri  termini,  per  sfuggire  alle  conseguenze  denunciate,

l’unico modo e’ di intendere le suddette norme nel senso che  non  si

applicano alle ricevitorie.

Ma questa non e’ un’interpretazione costituzionalmente  orientata

delle disposizioni denunciate, quanto la loro disapplicazione al caso

concreto.

E’ pure una strada percorribile, ma, come si e’ detto,  rifiutata

dal diritto vivente.

Ed e’ rispetto alla interpretazione che ne da’ il diritto vivente

che si solleva dunque la questione di legittimita’ costituzionale.

 

 

La Commissione,

Visto l’art. 23 della legge 87/1953;

Ritenutane la rilevanza e la non manifesta infondatezza,  rimette

alla Corte costituzionale la questione di legittimita’ costituzionale

degli articoli 3 e 4 comma 1, lettera b) numero 3 del d.lgs. 504/1998

e art. 1 comma 66  lettera  b)  della  legge  n.  220  del  2010,  in

relazione agli articoli 3, 53 della Costituzione, nella parte in  cui

vengono interpretati come applicabili ai  centri  di  raccolta  dati,

facendo di questi ultimi dei soggetti  passivi  della  imposta  unica

sulle scommesse, per i motivi esposti in narrativa.

Sospende il giudizio e  dispone  l’immediata  trasmissione  degli

atti alla Corte costituzionale. Dispone che la presente ordinanza sia

notificata a cura della Segreteria  alle  parti,  al  Presidente  del

Consiglio dei ministri e  sia  comunicata  ai  Presidenti  delle  due

camere del Parlamento.

Rieti, 12 novembre 2015

 

Il Presidente: Gianni

 

 

Il Giudice est.: Cricenti

 

 

 

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