In Gazzetta Ufficiale le ordinanza del 17 dicembre 2015 della Commissione tributaria provinciale di Rieti sul ricorso proposto contro l’Agenzia delle dogane e Monopoli, sull’imposta unica sulle scommesse – Soggettivita’
In Gazzetta Ufficiale le ordinanza del 17 dicembre 2015 della Commissione tributaria provinciale di Rieti sul ricorso proposto contro l’Agenzia delle dogane e Monopoli, sull’imposta unica sulle scommesse – Soggettivita’ passiva dei centri di raccolta dati (o CTD ) operanti come ricevitorie per conto del bookmaker estero che rinviano alla Corte costituzionale la questione di legittimita’ costituzionale degli articoli 3 e 4 comma 1, lettera b) numero 3 del d.lgs. 504/1998 e art. 1 comma 66 lettera b) della legge n. 220 del 2010, in relazione agli articoli 3, 53 della Costituzione, nella parte in cui vengono interpretati come applicabili ai centri di raccolta dati, facendo di questi ultimi dei soggetti passivi della imposta unica sulle scommesse.
Di seguito una delle ordinanze:
LA COMMISSIONE TRIBUTARIA PROVINCIALE DI RIETI
Sezione 2
Ha emesso la seguente ordinanza sul ricorso n. 84/2014, spedito
il 16/04/2014 avverso avviso di accertamento n. MUP080000460U
GIOCHI-LOTTERIE 2008.
Contro: AG. Dogane e Monopoli Sezione Operativa di Rieti,
proposto dal ricorrente: xxxx
02021 Borgorose RI difeso da: avv. Gazzo Massimiliano presso Studio
legale De Berti Jacchia Franchini Forlani via San Paolo,7 – 20121
Milano MI.
La Commissione, a scioglimento della riserva;
Letti gli atti;
Osserva
per conto di Stanley International, che, per quanto riguarda
l’Italia, ha ceduto il ramo di azienda relativo ai giochi ed alle
scommesse, a Stanleybet Malta Limited.
In particolare, la ricorrente ha con la Stanley un contratto di
ricevitoria, in base al quale raccoglie le scommesse dei singoli
scommettitori e le trasmette a Stanley, pagando poi l’eventuale
vincita. In sostanza, il giocatore prende visione, all’interno della
ricevitoria, delle proposte di scommessa fatte da Stanley (in genere
su un monitor telematico), compila una schedina con la scommessa che
intende accettare e la consegna al ricevitore, il quale la trasmette
a Stanley. Quando quest’ultimo ha ricevuto la volonta’ dello
scommettitore, quello e’ il momento in cui si conclude il contratto.
Se il giocatore vince, la somma viene pagata direttamente da
Stanley.
Cosi’ che la ricevitoria non e’ il soggetto che organizza le
scommesse, in quanto non stabilisce su cosa e per quanto scommettere
e non decide quale sia la vincita da corrispondere al giocatore.
L’organizzatore della scommessa e’ il bookmaker (nel nostro caso
Stanley) mentre la ricevitoria funge da centro di trasmissione dei
dati necessari alla conclusione del gioco.
sulle scommesse anche dal ricevitore.
Cio’ fa sulla base dell’art. 3 d.lgs. 504/1998 come interpretato
dall’art. 1 comma 66, lettera B) legge 220/2010.
La prima delle due norme stabilisce che: “soggetti passivi
dell’imposta unica sono coloro quali gestiscono, anche in
concessione, i concorsi pronostici e le scommesse”. Norma oggetto di
interpretazione autentica da parte dell’art. 1, e 66, lett. b), L.
220/2010, che, allo scopo di eliminare ogni dubbio sull’equiparazione
delle scommesse offerte dagli allibratori muniti di concessione
italiana rispetto a quelli residenti in altro Stato Membro
dell’Unione europea, ed operanti con modali transfrontaliera, che ne
sono privi (cfr. art. 1, co. 6 L. 220/2010), ha disposto che “…
l’art. 3 del decreto legislativo 23 dicembre 1998, n. 504, si
interpreta nel senso che soggetto passivo d’imposta e’ chiunque,
ancorche’ in assenza … della concessione rilasciata dal Ministero
dell’economia e delle finanze – Amministrazione autonoma dei monopoli
di Stato – gestisce con qualunque mezzo, anche telematico, per conto
proprio o di terzi, anche ubicati all’estero, concorsi pronostici o
scommesse di qualsiasi genere. Se l’attivita’ e’ esercitata per conto
terzi, il soggetto per conto del quale l'”attivita’ esercitata e’
obbligato solidalmente al pagamento dell’imposta e delle relative
sanzioni”.
Sulla base di questa ultima norma, l’Agenzia ritiene che i centri
di raccolta dati siano “gestori” di scommesse per conto terzi, ossia
per conto dei bookmaker (nel nostro caso per conto di Stanley), con
la conseguenza di essere soggetti passivi di imposta.
soggetti passivi di imposta e’ stata posta al giudice tributario in
occasioni diverse. Allo stato prevale la tesi affermativa, che,
ritenendo che i centri di raccolta dati “gestiscono” per conto dei
bookmaker le scommesse, ritiene che essi ricadano nella previsione
dell’art. 1 comma 66 legge 220/ 2010, e dunque siano soggetti passivi
dell’imposta. Con i centri di raccolta e’ conseguentemente obbligato
in via solidale il bookmaker di riferimento.
Questa tesi, per come anche documentato in atti, essendo di gran
lunga piu’ diffusa della tesi contraria, costituisce, allo stato, il
diritto vivente, o comunque costituisce l’interpretazione corrente
del combinato disposto (art. 3 d.lgs. n. 504 del 1998 e art. 1 comma
66 l. 220/2010) in tema di soggetti passivi dell’imposta di consumo.
Questa interpretazione e’ pero’ sospettata di illegittimita’
costituzionale per le ragioni, evidenziate dalla ricorrente, che si
andranno ad evidenziare in seguito e che questa Commissione fa
proprie, condividendole.
La ricorrente (centro di raccolta dati) contesta di dovere pagare
l’imposta di consumo, meglio, contesta che le due norme suindicate,
si possano riferire alla sua attivita’. E’ di tutta evidenza dunque
che, per poter decidere il ricorso (se la ricorrente sia o meno
soggetto d’imposta) deve farsi applicazione di quelle norme, e
precisamente, della prima, quale formulazione originaria del
precetto, della seconda quale interpretazione autentica del medesimo.
Se la norme vengono intese nel senso che le ricevitorie sono
soggetti passivi d’imposta, il ricorso dovra’ essere rigettato,
viceversa se le norme sono intese come non riferibili alle
ricevitorie, il ricorso andra’ accolto.
Si intuisce, senza bisogno di alcuna altra argomentazione, che la
decisione dipende dalla interpretazione che si vorra’ dare alle
suddette disposizioni. E tuttavia non si tratta di scegliere tra due
interpretazioni diverse, cosi’ che la questione non e’ solo di tipo
interpretativo. Come si e’ detto opinione corrente ha gia’ scelto una
interpretazione (e la norma, come e’ noto, e’ l’esito della
interpretazione). Questa Commissione dunque prende atto che esiste
un’interpretazione corrente, che porta a ritenere le ricevitorie come
obbligate al pagamento dell’imposta, ma ritiene altresi’ che tale
interpretazione corrente produca una norma incostituzionale. Dunque,
la rilevanza della questione e’ nel fatto che la norma, quale esito
dell’interpretazione corrente di quelle disposizioni, e’ nel senso
della imponibilita’ e che la causa non puo’ essere decisa se non
applicandola.
Piu’ precisamente.
Si’ puo’ obiettare che e’ allora sufficiente che il giudice
scelga l’una o l’altra delle suddette interpretazioni per decidere la
causa, senza bisogno che sollevi questione di legittimita’
costituzionale.
O, piu’ precisamente, si puo’ obiettare che questo giudice non
puo’ sollevare la questione senza avere prima sondato la possibilita’
di una interpretazione della norma in un senso conforme a
Costituzione.
Va osservato al riguardo, quanto a questo ultimo aspetto, che qui
la rilevanza della questione e’ data dalla possibilita’ che la norma
si riferisca anche alle ricevitorie quali soggetti d’imposta. E
l’unica opzione interpretativa che e’ rimessa al giudice e’ solo di
ritenere applicabile o meno la suddetta disciplina anche ai centri di
raccolta delle scommesse.
Se il giudice decide che la norma non si applica alle
ricevitorie, non fa un’interpretazione compatibile con la
Costituzione, piuttosto esclude semplicemente che la norma, conforme
o meno che sia alla Costituzione, non si applica affatto al suo caso.
La necessita’ di sondare se vi sia un’interpretazione compatibile
con la Costituzione sorge solo dopo che il giudice avra’ deciso che
la norma si applica anche alle ricevitorie. Solo a quel punto,
ritenuta applicabile la norma, e dunque scelta l’interpretazione che
conduce a quell’esito, potrebbe essere obbligo del giudice verificare
se vi sia un’interpretazione possibile che renda la norma compatibile
con la Costituzione.
A ben vedere pero’ il giudice rimettente non e’ obbligato ad una
tale verifica quando l’interpretazione della cui costituzionalita’
egli dubita, costituisce diritto vivente, e’, in altri termini,
un’interpretazione seguita correntemente nella giurisprudenza. E’
regola piu’ volte affermata che: “in presenza di un diritto vivente
non condiviso dal giudice a quo perche’ ritenuto costituzionalmente
illegittimo, questi ha la facolta’ di optare tra l’adozione, sempre
consentita, di una diversa interpretazione, oppure – adeguandosi al
diritto vivente – la proposizione della questione davanti a questa
Corte; mentre e’ in assenza di un contrario diritto vivente che il
giudice rimettente ha il dovere di seguire l’interpretazione ritenuta
piu’ adeguata ai principi costituzionali (cfr. ex plurimis sentenze
del 2015)”.
Nel caso presente, le corti di merito (non v’e’ ancora alcuna
pronuncia della Corte di Cassazione) sono quasi unanimemente, con
pochissime eccezioni, orientate verso la tesi per cui la norma si
applica alle ricevitorie, considerandole soggetti passivi d’imposta.
E l’orientamento sta ricevendo l’avallo delle Commissioni Regionali
(CTR Bari n. 769/13/2015; CTR Milano n. 1458/15/2015. CTR Napoli n.
4615/17/2015).
E’ regola che il requisito della non manifesta infondatezza non
comporta che il giudice sia convinto della piena fondatezza, ma e’
sufficiente che abbia oggettive ragioni di dubbio sulla
costituzionalita’ della norma (Corte cost. 143 del 1982) per i
seguenti
Motivi
principio di capacita’ contributiva.
L’imposta sulle scommesse e’, per opinione pacifica, un’imposta
indiretta, che colpisce il consumo di ricchezza del giocatore.
L’imposta grava sullo scommettitore anche se e’ riscossa dal
concessionario e da questi girata all’erario. Di conseguenza la
capacita’ contributiva su cui e’ commisurata l’imposta unica e’
quella dello scommettitore privato.
Il consumo della scommessa e’ dunque indice indiretto di
capacita’ contributiva.
Come e’ tipico delle imposte indirette, l’onere relativo puo’
essere (dovrebbe essere) trasferito sul consumatore della ricchezza
tassata, ossia sul giocatore.
In sostanza, proprio in quanto il concessionario non e’ il
soggetto gravato dall’imposta, ma solo colui che materialmente ne
versa il gettito all’erario, egli deve poter trasferire l’onere
relativo sul soggetto passivo, ossia sul giocatore. Diversamente
l’imposta, pensata per colpire il “consumo” della scommessa da parte
dello scommettitore, finisce con il gravare sul concessionario,
tradendo la sua natura di imposta di consumo. Ne segue che soltanto
se l’imposta potra’ effettivamente gravare sul consumatore o su
soggetto capace di trasferire a quest’ultimo l’onere relativo, potra’
ritenersi rispettato il criterio della capacita’ contributiva.
Se si intendono gli art. 3 d.lgs. 504/1998 e 1 comma 66 l.
220/2010 nel senso che la ricevitoria e’ un gestore per conto terzi
della scommessa, e dunque soggetto passivo d’imposta, l’esito e’ la
violazione del principio di capacita’ contributiva.
In nessun modo infatti la ricevitoria potra’ traslare sullo
scommettitore l’onere dell’imposta.
Non v’e’ alcuna norma infatti che consenta o imponga al centro di
elaborazione dati di rivalersi sullo scommettitore o di effettuare la
ritenuta sulle puntate ricevute o sulle vincite versate. Piuttosto la
disciplina amministrativa prevede il contrario (D.M. 111/2006).
La ricevitoria non puo’ effettuare una tale traslazione neanche
in via indiretta, ossia modificando le quote di scommessa, poiche’
non ha alcun potere di farlo, essendo le quote, cosi come le
percentuali di vincita stabilite direttamente dal bookmaker (nel
nostro caso Stanley).
E del resto, di fatto, il contratto tra il bookmaker ed il
ricevitore vieta a quest’ultimo ogni forma di ingerenza nella
determinazione della scommessa e delle quote relative.
Il centro elaborazione dati, ricevuta la somma da parte dello
scommettitore, deve trasmetterla al bookmaker, verso cui ha un
obbligo di rendicontazione, cosi’ che in alcun modo la ricevitoria
puo’ traslare sullo scommettitore (neanche materialmente) l’imposta
che, secondo l’interpretazione corrente, e’ tenuto a versare
all’erario.
Piu’ precisamente.
Alla ricevitoria (obbligato “principale”) e’ preclusa la facolta’
di rivalersi sul bookmaker (obbligato “dipendente”), per l’esplicito
divieto dell’art. 64, co. 3, dPR 600/1973, che – al contrario –
attribuisce il diritto di rivalsa all’obbligato “dipendente”, dunque,
al bookmaker. In secondo luogo, quand’anche fosse superabile il
disposto del predetto art. 64, co. 3, del dPR 600/1973, la
rivalsa/regresso nei confronti dei bookmaker traslerebbe l’onere del
tributo su un soggetto (il bookmaker, appunto) che non il titolare
della capacita’ contributiva destinata dal Legislatore a venire
incisa (lo scommettitore).
Ne segue che l’attribuzione al titolare di ricevitoria dell’onere
dell’Imposta Unica viola il dettato costituzionale, in quanto
colpisce un soggetto che non possiede la capacita’ contributiva
individuata dal Legislatore quale fatto generatore del tributo
(consumo di ricchezza nelle scommesse) e che, al contempo, non ha
alcuna possibilita’ di traslarne l’onere su chi la possiede (lo
scommettitore).
Costituzione.
Le disposizioni denunciate pongono il medesimo carico d’imposta
sul “gestore per conto proprio” (il bookmaker) e sul “gestore per
conto terzi” (il titolare di ricevitoria), accomunando cosi’
situazioni oggettivamente diverse sotto molteplici profili.
Innanzitutto, l’attivita’ del bookmaker e’ astrattamente, ma
anche di fatto, diversa da quella svolta per suo conto dalla
ricevitoria. Mentre il bookmaker sceglie gli eventi su cui i
giocatori sono invitati a effettuare scommesse (cosiddetto
“palinsesto” ovvero “programma di accettazione” ai sensi dell’art. 5,
il loro prezzo) e le loro condizioni contrattuali e, come visto,
stipula in nome proprio i contratti di scommessa assumendone i
diritti e gli obblighi, la ricevitoria si limita a fornirgli il
supporto logistico esterno, mettendolo in contatto materiale con i
giocatori, trasmettendo le rispettive volonta’ contrattuali ed i
relativi flussi di provvista, e, in definitiva, eseguendo tutte e
soltanto le direttive e le istruzioni ricevute dal bookmaker. Nessun
ruolo, al contrario, ha la ricevitoria con riferimento alle altre
fasi economico-giuridiche della scommessa: non partecipa alla
formazione del palinsesto di gioco, ne’ alla quotazione delle
scommesse; e’ soggetto terzo rispetto al contratto di scommessa
stipulato tra i bookmaker ed il giocatore; non vanta diritti sulla
puntata; non risponde delle vincite; ed, infine, ha l’obbligo di
pagarle, non gia’ a titolo e con provvista propri, e bensi’ in
esecuzione del mandato ricevuto da parte del bookmaker e con la
provvista da lui fornita. Il bookmaker e’ il mandante della
ricevitoria, dei cui incarichi quest’ultima e’ mera esecutrice.
Non meno diverse sono le utilita’ ritratte dai due soggetti dalla
loro attivita’. Mentre, infatti, il ricavo del bookmaker e’
costituito dal valore delle scommesse stipulate, quello della
ricevitoria e’ dato dalla provvigione che il bookmaker gli riconosce.
Dal punto di vista strettamente tributario, vale la pena di
evidenziare l’effettivo rapporto sussistente tra i due soggetti nei
confronti del presupposto d’imposta, che, lo si ricorda, C. Cost. n.
350/2007 ha individuato nel contratto di scommessa. Mentre il
bookmaker e’ parte del contratto di scommessa ed e’ titolare dei
diritti (incameramento delle puntate) e degli obblighi (pagamento
delle vincite) che ne conseguono, la ricevitoria si limita a
“ricevere le schede di partecipazione e riscuotere le poste da parte
dei concorrenti …” per conto del primo (come esplicitamente
previsto dall’art. 55, dPR n. 581/1951), al contratto di scommessa
rimanendo completamente estranea.
Diverso e’ anche il rapporto con la provvista versata dallo
scommettitore. Mentre, infatti, il bookmaker ne’ e’ il proprietario
ed e’ munito del potere giuridico di disporne, la ricevitoria e’ un
mero mandatario all’incasso con precisi obblighi di rendicontazione,
e con l’obbligo di riversare al primo tutto quanto ricevuto e
movimentato, al netto delle sole vincite pagate ai giocatori e, in
via di compensazione, delle provvigioni maturate a corrispettivo
della propria attivita’.
Infine, anche con specifico riferimento alla capacita’
contributiva destinata a venire incisa (quella dello scommettitore),
la posizione del bookmaker e’ profondamente diversa da quella della
ricevitoria. Mentre il primo puo’ realizzare la volonta’ legislativa
di incidere la ricchezza dello scommettitore, e mediante quote
(ovvero “prezzi” della scommessa) meno favorevoli e, comunque,
rinvenire la provvista necessaria all’assolvimento del tributo nelle
puntate raccolte, cio’ non e’ sicuramente possibile per il
ricevitore, a motivo dell’assenza di rapporti giuridici e/o economici
con lo scommettitore.
La giurisprudenza di merito (ad es. CTP Napoli, n. 29890/30/2014)
ha tentato di superare quest’ultima obiezione, affermando che il
titolare di ricevitoria potrebbe liberarsi dell’onere dell’imposta
mediante appositi accordi con il bookmaker che lo autorizzassero a
prelevare l’imposta dalla puntata. La tesi, tuttavia, non ha pregio,
per due ordini di ragioni. In primo luogo, la necessita’ di un simile
accordo, lungi dal giustificare la discriminazione lamentata, la
conferma, in quanto evidenzia l’inidoneita’ della norma a garantire
da sola la ragionevolezza della discriminazione (senza, cioe’,
l’intervento di atti di autonomia contrattuale, rimessi alla
convenienza e alla forza imprenditoriale dei privati). In secondo
luogo, alla traslazione dell’onere tributario dal “gestore per conto
terzi” (ricevitoria) sul terzo beneficiario della gestione
(bookmaker), come gia’ visto, osta il fatto che la responsabilita’ di
quest’ultimo ha natura “dipendente” ed e’, quindi, accompagnata dal
diritto di rivalsa nei confronti del responsabile “principale” (il
“gestore per conto terzi”) ex art. 64, co. 3, dPR 600/1973.
Posto, quindi, che bookmaker e titolare di ricevitoria sono
soggetti radicalmente diversi, la loro equiparazione dal punto di
vista della responsabilita’ tributaria non puo’ trovare ragionevole
giustificazione e si risolve in una discriminazione contraria al
principio di uguaglianza.
Infine, a sostegno dell’assoggettamento all’imposta del titolare
di ricevitoria, neppure potra’ invocarsi un’esigenza di supposta
parita’ di trattamento fiscale delle scommesse organizzate da
soggetti titolari di concessione con quelle organizzate da soggetti
privi di tale titolo. Al contrario, e’ proprio l’attribuzione della
soggettivita’ passiva alla ricevitoria, per definizione priva di
concessione, a violare tale principio. Infatti, nel sistema
concessorio, l’unico soggetto passivo e’ l’allibratore titolare di
concessione (cfr. art. 16, D.M. 111/2006), e giammai la “sua”
ricevitoria.
della legge di cui all’art. 3 della Costituzione.
Corollari del principio di uguaglianza tutelati dal medesimo art.
3 Cost. sono i principi di ragionevolezza delle leggi e di
proporzionalita’ (cfr. ad es. C. Cost. n. 2/1999 in cui si e’
giudicato che la disposizione ivi scrutinata era “… irragionevole,
contrastando con il principio di proporzione, che e’ alla base della
razionalita’ che informa il principio di eguaglianza …”). Questi
principi si sostanziano nel rapporto che deve sussistere tra
l’obiettivo della norma ed i mezzi che il Legislatore ha approntato
per il suo raggiungimento, essendo sufficiente, per dubitare della
sua costituzionalita’, il riscontro della sua intrinseca
irragionevolezza (cfr. C. Cost. n. 104/2003[8]), senza necessita’ di
rinvenire alcun tertium comparationis (cfr. C. Cost. n. 23/2011[9]).
Conseguentemente, la norma sara’ intrinsecamente irragionevole e
non proporzionale se, da un lato, e’ inidonea a realizzare i fini che
dovrebbero giustificarla e, dall’altro, comprime in modo abnorme od
eccessivo altri diritti costituzionalmente tutelati.
Esemplarmente C. Cost. n. 89/1996 ha giudicato che il “test di
ragionevolezza” costituisce “… un apprezzamento di conformita’ tra
la regola introdotta e la «causa» normativa che la deve assistere:
ove la disciplina positiva si discosti dalla funzione che la stessa
e’ chiamata a svolgere nel sistema e ometta, quindi, di operare il
doveroso bilanciamento dei valori che in concreto risultano
coinvolti, sara’ la stessa «ragione» della norma a venir meno,
introducendo una selezione di regime giuridico priva di causa
giustificativa e, dunque, fondata su scelte arbitrarie che
ineluttabilmente perturbano il canone dell’eguaglianza.
Ogni tessuto normativo deve anzi presentare, una «motivazione»
obiettivata nel sistema, che si manifesta come entita’ tipizzante del
tutto avulsa dai «motivi», storicamente contingenti, che possono
avere indotto il legislatore a formulare una specifica opzione: se
dall’analisi di tale motivazione scaturira’ la verifica di una
carenza di «causa» o «ragione» della disciplina introdotta, allora e
soltanto allora potra’ dirsi realizzato un vizio di legittimita’
costituzionale della norma, proprio perche’ fondato sulla
«irragionevole» e per cio’ stesso arbitraria scelta di introdurre un
regime che necessariamente finisce per omologare fra loro situazioni
diverse o, al contrario, per differenziare il trattamento di
situazioni analoghe …” (cfr. altresi’ ex multis C. Cost. n.
245/2007).
I predetti principi sono stati ripetutamente applicati dalla
Consulta anche in materia fiscale, ad esempio, con le sentenze nn.
281/2011 e 10/2015.
Con la prima e’ stata dichiarata l’illegittimita’ costituzionale
dell’art. 85, co. 1, del dPR 29 settembre 1973; n. 602, in materia di
riscossione tributaria, nella parte in cui prevedeva che il valore di
assegnazione allo Stato del bene pignorato all’esito del terzo
incanto negativo fosse svincolato da quello di mercato. Tale
decisione riposa sul giudizio di irragionevolezza del Legislatore nel
prevedere che il valore di espropriazione del bene era individuato in
maniera del tutto avulsa rispetto al suo reale valore; e cio’,
nonostante che il trasferimento immobiliare abbia la finalita’ di
trasformare il bene in denaro per il soddisfacimento dei creditori e
non certo di infliggere una sanzione atipica al debitore
inadempiente.
Pertinente e’ anche la recentissima C. Cost. n. 10/2015 che ha
dichiarato l’incostituzionalita’ della ed. Robin , Hood tax (art. 81,
inidoneita’ a conseguire il duplice obiettivo che avrebbe dovuto
giustificarla; vale a dire, da un lato, la tassazione dell’extra
profitto derivante ai petrolieri dalle particolari conformazioni del
mercato e, dall’altro, la salvaguardia degli interessi dei
consumatori mediante il divieto di traslazione.
Con riferimento al test di proporzionalita’, la Corte ha chiarito
che esso si risolve nel necessario contemperamento dei diversi
principi e valori di rango costituzionale coinvolti; contemperamento,
da considerarsi diretta espressione del generale canone di
ragionevolezza (C. Cost. n. 220/1995). Infatti, “… il test di
proporzionalita’, utilizzato … spesso insieme con quello di
ragionevolezza … richiede di valutare se la norma oggetto di
scrutinio, con la misura e le modalita’ di applicazione stabilite,
sia necessaria e idonea al conseguimento di obiettivi legittimamente
perseguiti, in quanto, tra piu’ misure appropriate, prescriva quella
meno restrittiva dei diritti a confronto e stabilisca oneri non
sproporzionati rispetto al perseguimento di detti obiettivi …” (C.
Cost. n. 1/2014).
Al proposito, si rammenti che l’intervento legislativo del 2010
trovava il suo esplicito obiettivo nella volonta’ legislativa di
equiparare la tassazione delle scommesse offerte dai bookmaker
nazionali muniti di concessione a quella dei bookmaker (per lo piu’
esteri) che ne erano privi, “… garantendo altresi’ maggiore
effettivita’ al principio di lealta’ fiscale nel settore del gioco e
recuperando base imponibile e gettito a fronte di fenomeni di
elusione ed evasione fiscali nel medesimo settore …” (cfr. art. 1,
che precedono dimostrano come tali finalita’, seppur in astratto
idonee a giustificare con il tributo l’incisione del diritto di
proprieta’ del contribuente, non vengano affatto realizzate in
concreto dall’intervento normativo del 2010 e dall’assetto
dell’Imposta Unica che ne e’ derivato.
In primo luogo, l’intervento non realizza alcuna equiparazione
soggettiva tra gli operatori del mercato, non proponendo affatto
un’equazione fra ricevitori “fuori concessione” (quale l’odierna
ricorrente) e ricevitori “in concessione”, ne’ dei bookmaker ” fuori
concessione” (come quelli esteri) a bookmaker “in concessione”
(cioe’, i concessionari nazionali).
Quanto ai ricevitori, e’ agevole osservare che quelli “in
concessione” non vengono mai chiamati ad alcun versamento a titolo di
Imposta Unica. A riprova di cio’, il D.M. 111/2006, mentre all’art. 2
ammette esplicitamente che l’allibratore/concessionario possa
avvalersi di ricevitorie (denominate i luoghi di vendita”) , all’art.
16 riconosce non meno chiaramente l’allibratore /concessionario come
unico debitore dell’imposta, prevedendo addirittura le modalita’
pratiche con cui essa deve venire assolta (“… il concessionario
effettua il pagamento delle somme dovute, a titolo di imposta unica
nonche’ le vincite ed i rimborsi non riscossi di cui all’art. 20,
comma 2, con le modalita’ stabilite dal decreto del Presidente della
Repubblica 8 marzo 2002, n. 66 …”).
Quanto, invece, alla posizione dei bookmaker, mentre quelli
titolari di concessione sono obbligati al pagamento, quelli privi di
concessione che si avvalgono di ricevitorie (come, nel caso di
specie, Stanleybet) non sono assoggettati al medesimo obbligo. A
questi ultimi, infatti, che secondo il modello della “gestione per
conto terzi” sono meri obbligati “dipendenti”, l’art. 64, co. 3, dPR
600/1973 attribuisce il diritto di regresso integrale nei confronti
della ricevitoria.
In secondo luogo, non e’ realizzato neppure l’effetto
dell’equiparazione fiscale delle scommesse “in concessione” rispetto
a quelle “fuori concessione” e, quindi, del “… recuper[o di] base
imponibile e di gettito a fronte di fenomeni di elusione ed evasione
fiscali …”. Si e’ visto, infatti, che il titolare di ricevitoria
cui e’ addossato l’onere dell’imposta non ha alcuna possibilita’ di
traslarlo sugli scommettitori; e, pertanto, se mai le scommesse
“fuori concessione” fossero state davvero stipulare in evasione
d’imposta prima della L. 220/2010, tale situazione non e’ sicuramente
cambiata a tutt’oggi.
L’inidoneita’ degli strumenti approntati dalla L. 220/2010 per
raggiungere gli obiettivi dichiarati dal Legislatore (sottoposizione
alla medesima contribuzione delle scommesse offerte da qualunque
allibratore e, quindi, realizzazione dell’equa contribuzione di cui
all’art. 53 Cost.) e’, dunque, di solare evidenza.
Ma, all’irragionevolezza della novellazione introdotta dall’art.
1, comma 66, lett. b) , della L. 220/2010 nel contesto della presente
causa si perviene, oltre che sul piano intrinseco, anche nella
diversa prospettiva della retroattivita’. Se e’ vero che non sussiste
un divieto costituzionale delle leggi extrapenali retroattive (art.
25 Cost.), queste soggiacciono pero’ ad un piu’ penetrante scrutinio,
a salvaguardia dei “… fondamentali valori di civilta’ giuridica
posti a tutela dei destinatari della norma e dello stesso
ordinamento, tra i quali vanno ricompresi il rispetto del principio
generale di ragionevolezza e di eguaglianza,[e] di tutela
dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti, quale principio
connaturato allo Stato di diritto …” (C. Cost. n. 282/2005; nonche’
leggi retroattive in materia extra-penale si riconduce, ancora una
volta, alla loro ragionevolezza. In punto, C. Cost. n. 416/1999 ha
giudicato: “… Il legislatore ha il potere di regolare
autonomamente, sulla base dell’art. 10 Cost., situazioni pregresse
… in quanto il divieto di retroattivita’ della legge, pur
costituendo fondamentale valore di civilta’ giuridica e principio
generale dell’ordinamento … non e’ stato elevato a dignita’
costituzionale, eccettuata la previsione dell’art. 25 Cost. relativa
alla legge penale, sicche’, fuori da tale ultima materia, puo’
emanare norme con efficacia retroattiva, a condizione che [anche] la
retroattivita’ sia giustificata sul piano della ragionevolezza e non
si ponga in contrasto con altri valori e interessi costituzionalmente
protetti (sent. n. 229 del 1999; sent. n. 211 del 1997, n. 390 del
1995), tra i quali e’ compreso l’affidamento del cittadino nella
sicurezza giuridica …” (Conformi, ex multis, C. Cost. n. 419/2000;
La speciale sensitivita’ costituzionale della retroattivita’ che
e’ insita nelle leggi interpretative e’ questione ben nota ai Giudici
delle Leggi. Ad esempio, C. Cost. n. 409/2005 ha statuito che “… al
di fuori della materia penale … cio’ che conta precipuamente ai
fini del sindacato di legittimita’ costituzionale di una legge
retroattiva non e’ l’esistenza dei presupposti … per l’emanazione
di una legge interpretativa, quanto piuttosto la non irragionevolezza
della sua efficacia retroattiva e l’inesistenza di violazioni di
altri principi costituzionali … questa Corte ha ritenuto che in
linea generale, l’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica
– essenziale elemento dello Stato di diritto non puo’ essere leso da
disposizioni retroattive, che trasmodino in regolamento irrazionale
di situazioni sostanziali fondate su leggi anteriori (ex plurimis,
sent. n. 446/2002)…”.
La soluzione non muta neppure per le leggi formalmente di
interpretazione autentica, come e’ il casa della L. 220/2010. C.
Cost. n. 252/2000 ha giudicato: “… siccome la disposizione
censurata e’ norma di interpretazione autentica con efficacia
retroattiva … e’ soggetta, tra gli altri, al limite del rispetto
del principio dell’affidamento dei consociati nella certezza
dell’ordinamento giuridico …”.
Cio’ che conta, non e’ tanto la natura formale o dichiarata di
legge di interpretazione autentica, e percio’, tecnicamente
retroattiva, quanto la sua “… adeguata giustificazione sul piano
della ragionevolezza …” (C. Cost. n. 374/2002). Si veda pure C.
Cost. n. 274/2006, che ha precisato “… nel giudizio di legittimita’
costituzionale delle norme di interpretazione autentica non e’
precisivo verificare se la norma abbia carattere effettivamente
interpretativo (e sia percio’ retroattiva) ovvero sia innovativa con
efficacia retroattiva, in quanto il divieto di retroattivita’ della
legge non e’ stato elevato a dignita’ costituzionale, salva per la
materia penale la previsione dell’art. 25 cost. … purche’ la
retroattivita’ trovi adeguata giustificazione sul piano della
ragionevolezza e non contrasti con altri valori ed interessi
costituzionalmente protetti …”. Neppure rileva, infine, che la
norma di interpretazione autentica venga adottata in presenza di
incertezze nell’applicazione di una precedente norma o di contrasti
giurisprudenziali, oppure fissi con la scelta legislativa una delle
possibili varianti interpretative del testo originario; cio’ che
conta e’ che l’interpretazione prescelta dal Legislatore, che cosi’
assurge a precetto positivo, “… non contrasti con altri valori e
interessi costituzionalmente protetti e trovi adeguata
giustificazione sul piano della ragionevolezza …” (C. Cost. n.
160/2013).
orientata.
Dalle motivazioni che precedono, esposte dalla ricorrente e fatte
proprie da queste Commissione, risulta peraltro impossibile
un’interpretazione costituzionalmente orientata delle norme
denunciate, intese come applicabili anche alle ricevitorie.
Se infatti si assume che anche il centro di raccolta dati e’
soggetto passivo dell’imposta, gli effetti che si sono denunciati
come incostituzionali sono inevitabili, e discendono proprio
dall’avere ricompreso le ricevitorie tra i soggetti tenuti al
pagamento del tributo.
In altri termini, per sfuggire alle conseguenze denunciate,
l’unico modo e’ di intendere le suddette norme nel senso che non si
applicano alle ricevitorie.
Ma questa non e’ un’interpretazione costituzionalmente orientata
delle disposizioni denunciate, quanto la loro disapplicazione al caso
concreto.
E’ pure una strada percorribile, ma, come si e’ detto, rifiutata
dal diritto vivente.
Ed e’ rispetto alla interpretazione che ne da’ il diritto vivente
che si solleva dunque la questione di legittimita’ costituzionale.
La Commissione,
Visto l’art. 23 della legge 87/1953;
Ritenutane la rilevanza e la non manifesta infondatezza, rimette
alla Corte costituzionale la questione di legittimita’ costituzionale
degli articoli 3 e 4 comma 1, lettera b) numero 3 del d.lgs. 504/1998
e art. 1 comma 66 lettera b) della legge n. 220 del 2010, in
relazione agli articoli 3, 53 della Costituzione, nella parte in cui
vengono interpretati come applicabili ai centri di raccolta dati,
facendo di questi ultimi dei soggetti passivi della imposta unica
sulle scommesse, per i motivi esposti in narrativa.
Sospende il giudizio e dispone l’immediata trasmissione degli
atti alla Corte costituzionale. Dispone che la presente ordinanza sia
notificata a cura della Segreteria alle parti, al Presidente del
Consiglio dei ministri e sia comunicata ai Presidenti delle due
camere del Parlamento.
Rieti, 12 novembre 2015
Il Presidente: Gianni
Il Giudice est.: Cricenti
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