Comunque la si voglia mettere, l’aumento del Preu per le slot al 19% costituisce l’ennesimo atto di protervia di uno Stato che, di giorno in giorno, aumenta il distacco dai
Comunque la si voglia mettere, l’aumento del Preu per le slot al 19% costituisce l’ennesimo atto di protervia di uno Stato che, di giorno in giorno, aumenta il distacco dai cittadini e dalla vita reale, compresa quella economica, e ancor di più lo fa senza temere smentite. La ragion politica prevale su tutto, persino sulla Costituzione a volte, e l’architettura del sistema legislativo viene sempre più affinata per evitare intralci alle decisioni prese dall’alto.
Il 60% degli italiani aveva cantato vittoria dopo la vittoria del NO al referendum costituzionale, ma in un modo o nell’altro i progetti di Palazzo Chigi vanno avanti sullo stesso binario. Siamo al quarto governo non eletto dai cittadini, e quest’ultimo si è posto in perfetta continuità col precedente, per potarne al compimento l’opera. Un’opera di smantellamento dei sacrosanti diritti al lavoro e dei lavoratori, dei sindacati, dell’industria (che è così costretta a svendersi alle multinazionali), financo dei diritti sociali, contemporanea da un lato ad un’azione di accentramento dei poteri e di limitazione del potere di intervento dei cittadini, e dall’altro ad un affannoso annaspare nel rischio di default.
Ci troviamo a convivere con un totalitarismo che sa di “liberticidio” e, poco appresso, di dittatura occulta. Possiamo sorprenderci, allora, se, in questo contesto, i “dannati” gestori di slot sono costretti a vivere eternamente sulla graticola? Certo che dobbiamo, altrimenti finiamo col farci andare bene tutto, con l’assistere inerti alla sparizione di migliaia di aziende e decine di migliaia di posti di lavoro.
Il fatto è che, purtroppo, la domanda chiave – fino a che punto lo Stato può aggravare il carico tributario per le imprese? – trova una risposta sostanzialmente negativa per i contribuenti.
Sulla carta esiste sì un limite giuridico entro il quale l’imposizione è da considerarsi giusta, ed esiste sì un diritto del contribuente a contestare l’imposizione ingiusta. D’altra parte, risalendo all’art.53 della Costituzione – che stabilisce i principi della capacità contributiva e della progressività del sistema tributario – danno soltanto delle indicazioni sull’applicazione del tributo in relazione alla condizione del singolo, ma non permettono di definire la misura tributo. Né tanto meno la Carta fa riferimento a un qualsivoglia concetto di “non eccessività” della pretesa impositiva da parte dello Stato, per evitare che quest’ultimo non debba poi trovarsi nelle condizioni di autolimitarsi nell’attuazione dei propri poteri e compiti per la mancanza delle risorse necessarie.
In soccorso al povero contribuente intervengono, sempre in teoria, i principi della ragionevolezza e della proporzionalità della sistema fiscale (e non del singolo tributo, badate bene) – diramazioni naturali del principio di uguaglianza – la cui sussistenza è sottoposta alla valutazione del giudice costituzionale.
E qui casca l’asino.
Anche in questo caso ci troviamo di fronte a parametri tutt’altro che oggettivi, ed oltretutto sindacabili. Questo perché laddove – vedi il nostro caso – intervengano esigenze“straordinarie”, la ragionevolezza e la proporzionalità passano in secondo piano.
I giuristi, bontà loro, si sono cimentati nell’elaborare una “dead line” oltre la quale la pressione fiscale non deve andare: il singolo non può essere colpito nella sua capacità di produrre reddito, né può essere menomato nel suo “diritto economico”, vale a dire intaccare i mezzi economici necessari per il soddisfacimento dei bisogni essenziali personali e di azienda. Perciò, secondo un’autorevole dottrina giuridica, sarebbe da evitare un peso fiscale che ecceda la metà del reddito di impresa o personale, al netto degli oneri deducibili.
Inoltre, a voler andare più in profondità, la dottrina osserva giustamente che non è sufficiente escludere la violazione dei diritti costituzionali, ma altresì – e diremmo ancor di più – che un’azione di politica fiscale finisca col ridurre la base imponibile, anziché ampliarla. Che è poi il rischio collaterale che si può concretizzare con il suddetto aumento del Preu. Infatti, per un basilare principio economico, la ricchezza tende sempre a spostarsi in luoghi (e in giochi) ove il prelievo fiscale è più basso.
Ebbene, per quanto ragionevoli siano tali asserzioni, la stessa dottrina alza le mani, o si fa da parte, laddove lo Stato si trovi nella “costrizione” di inasprire il prelievo erariale. Vale ancor oggi (a maggior ragione oggi) l’antico motto di diritto romano necessitas non habet legem, sed ipsa sibi facit legem. Ovvero, nei casi in cui si deve far fronte con interventi immediati ad una situazione imprevista ed imprevedibile (e su questo si potrebbe discutere all’infinito), i poteri straordinari dello Stato sono giustificati.
E qui la mazzata finale ce l’ha data la Comunità Europea, imponendo l’obbligatorietà del pareggio di bilancio, che è stato recepito in Italia con la modifica apportata alla Costituzione nel 2012 agli articoli 81, 97, 117 e 119, con effetto a partire dal 2014.
Tale innovazione, oltre ad aver avuto drammatiche conseguenze negative per l’Italia, introducendo ulteriori vincoli per lo Stato nell’effettuare gli investimenti necessari a migliorare le condizioni generali di produzione, la produttività e la crescita economica, ha creato uno “stato di necessità” permanente, oltreché di massima urgenza, visto che l’economia non riesce ad uscire dalla stagnazione.
Morale: tutto ciò ha esteso in maniera praticamente illimitata il potere del governo di applicare tasse e imposte senza badare troppo alla proporzionalità e alla capacità contributiva del singolo soggetto economico.
Sul pareggio di bilancio molto ci sarebbe da dire e da obiettare, ma non è questa la sede. Resta il fatto che gli economisti sono sostanzialmente concordi nel dire che in situazioni di recessione o crescita lenta del PIL è conveniente che lo Stato spenda in misura maggiore delle sue entrate, indebitandosi.
Al di là di questo, è di tutta evidenza che gli attuali principi tributari e degli annessi principi costituzionali hanno raggiunto livelli di farraginosità insostenibili. Lo Stato – meglio dire il Governo, che in questi anni ha progressivamente scalzato il Parlamento nell’esercizio del potere legislativo – continua a fare man bassa a colpi di aumenti di tasse e imposte senza incontrare particolari ostacoli.
Come se non bastasse, nel caso delle slot, è parimenti evidente l’utilizzo dell’imposizione tributaria in maniera strumentale e complementare rispetto all’obiettivo principale di reperimento delle entrate. Entriamo così nel campo della “extra fiscalità”, che è divenuta ormai una caratteristica fondamentale dell’imposizione tributaria moderna, non solo in Italia. Però, mentre da noi non esiste una norma che la sancisca e la definisca costituzionalmente, altri ordinamenti, come quello spagnolo e tedesco, si sono premurati di farlo.
In sostanza, è solo per prassi o per comune accettazione che un tributo può essere concepito, ad esempio, per finalità ambientali. E su questo riteniamo non ci sia proprio nulla da discutere. Diversamente si può ragionare quando il tributo si lega all’esistenza dell’obiettivo, da parte dello stato, di raggiungere per il benessere dei cittadini. Le finalità sociali, dunque, finiscono col sovrapporsi e fondersi con quelle fiscali, sino a rendere quest’ultime complementari.
Tutto ciò, oltre ad essere approvato dalla dottrina giuridica, è giustificato dalla stessa sulla base dei diversi principi costituzionali a cui il sistema tributario si informa.
Pertanto, lo Stato è legittimato a perseguire, attraverso un tributo, un effetto incentivante o disincentivante nei riguardi dell’acquisto di un bene o servizio. Illo tempore, c’èra la politica dei dazi doganali, attuata per ridurre il più possibile le importazioni di determinati prodotti. Oggi, con discrezionalità quasi assoluta, lo Stato può agevolare o deprimere numerosi settori economici o categorie di soggetti che si intendono favorire.
Ecco allora che per stroncare l’uso degli apparecchi da gioco, uno strumento micidiale è proprio quello della tassazione. Attenzione, però. Mentre in ogni altro caso, si pensi ai tabacchi ad esempio, è sempre il consumatore finale il destinatario dell’opera dissuasiva, nel nostro si va a colpire la parte bassa della filiera produttiva, vale a dire i cosiddetti Terzi Incaricati alla Raccolta.
Ciò lascia intendere che l’obiettivo non è tanto quello di distogliere l’utenza dal gioco, ma di penalizzare la parte più debole della filiera delle slot, in modo tale che si realizzi una selezione naturale dell’offerta, per riportarla entro margini “socialmente” più accettabili.
In questa selezione potranno resistere solo i soggetti più forti, vale a dire le multinazionali che comandano le concessionarie, le quali possono pure permettersi di lavorare per un certo periodo in perdita pur di diventare padrone assolute del mercato. La strada è stata aperta dalle Vlt e si concluderà probabilmente con le Awp di nuova generazione. Di cui non si parla più, ma è un silenzio molto sospetto, che prelude ad un inatteso “colpo di mano”.
Da parte sua, ciò che il giocatore percepisce sulla propria pelle non è l’aumento del Preu, bensì la riduzione del payout, e lo abbiamo visto nella seconda metà del 2016, quando la raccolta si è sensibilmente abbassata, complice anche una tassazione più benevola. Ma anche questa non costituisce una grande preoccupazione per gli strateghi della cosa pubblica. Difficilmente i giocatori smettono di giocare, semmai si spostano verso altri prodotti, che sono favoriti da una percentuale di restituzione più alta.
In definitiva, il Preu è la leva ideale per dare un bel giro di vite al mercato, più di ogni altro sistema.
E’ l’esaltazione della finalità extratributaria dell’imposta, che avendo raggiunto l’assurda quota del 66% sull’utile (al 19% bisogna aggiungere lo 0,8% per ADM e concessionari) è assolutamente insostenibile, considerato che l’esiguo margine che resta viene poi diviso con l’esercente.
Storicamente, fino all’impennata del 2016, il Preu ha avuto come quota massima quella iniziale, del 13,5%, ma allora il prelievo aggiuntivo (quota Aams) era solo dello 0,3%. Dopo la Bersani del 2007 il Preu è sceso al 12%, ma alla quota Aams si è aggiunto un ulteriore prelievo dello 0,5% destinato ai concessionari per la remunerazione degli investimenti tecnologici. Dal 2009 è subentrato il cosiddetto Preu a scaglioni, le cui aliquote medie sono state 12,43 per il 2009, 12,06% per il 2010, 12,15 per il 2011. Successivamente, una discutibile delega concessa dal governo ad AAms, ha permesso all’Amministrazione di innalzare al 12,7% per due anni, riducendo il payout al 74%, e per il 2015 al 13%, con l’aggiunta, fatta dal governo stesso, della famosa addizionale da 500 milioni. Poi, nel 2016, tale addizionale è stata cancellata e di fatto sostituita dall’incremento del Preu al 17,5%, con diminuzione del payout al 70%.
Guardando il dato nudo e crudo del gettito, i fatti dimostrano che sin quando il Preu ha oscillato fra il 12% e il 13% la quota erario ha oscillato da un minimo di 2,59mld (2008) a un massimo di 3,756 (2010), mentre negli esercizi dal 2012 al 2015 le variazioni sono state minimali. Nel 2016 la grande impennata da 3,37 a 4,6 mld, grazie appunto all’aumento Preu al 17,5%, che ovviamente si è giovata pure della diminuzione del payout.
A questo punto, ai TIR (terzi incaricati alla raccolta, ndr) rimane circa il 10% “pulito”, naturalmente da dividere fra gestori ed esercenti. Poi ci sono tutti gli oneri accessori e le altre imposte. In drastica sintesi: i nostri gestori sono al capolinea.
Ed è questo il traguardo al quale si vuole arrivare: che la filiera tagli la parte finale, quella dei TIR, o più precisamente che i concessionari finiscano con l’assorbire totalmente questa funzione, con un taglio netto delle postazioni meno remunerative e la concentrazione delle macchine nelle sale.
Marco Cerigioni – PressGiochi
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