24 Novembre 2024 - 13:28

Distanze. Per la Corte Costituzionale si tratta di misure legittime

La Corte Costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tar sulle norme della legge regionale no slot della Regione Puglia. Secondo il vicepresidente della Corte

12 Maggio 2017

La Corte Costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tar sulle norme della legge regionale no slot della Regione Puglia.

Secondo il vicepresidente della Corte Giorgio Lattanzi e il giudice Franco Modugno, le distanze minime imposte alle sale giochi dalle leggi regionali per il contrasto all’azzardo di massa, non contrastano con le norme statali e non violano i principi della legislazione concorrente in tema di salute. Per la Corte costituzionale non sono fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 7 della legge della Regione Puglia 13 dicembre 2013, n. 43, recante «Contrasto alla diffusione del gioco d’azzardo patologico (GAP)», sollevate dal Tribunale amministrativo regionale per la Puglia nel 2013.

 

 

 

Come riporta la sentenza:

 

Le questioni sottoposte all’esame di questa Corte vertono su una misura di “prevenzione logistica” della “dipendenza da gioco d’azzardo” (cosiddetto “gioco d’azzardo patologico” o “ludopatia”) che, dopo essere stata sperimentata a livello locale tramite regolamenti e ordinanze di autorità comunali, è stata adottata negli ultimi anni a livello legislativo da larga parte delle Regioni. Si tratta della previsione di distanze minime delle sale da gioco rispetto a luoghi cosiddetti “sensibili”: frequentati, cioè, da categorie di soggetti che si presumono particolarmente vulnerabili di fronte alla tentazione del gioco d’azzardo.

In questa prospettiva si colloca anche il censurato art. 7 della legge reg. Puglia n. 43 del 2013, come è reso palese tanto dal titolo della legge – «Contrasto alla diffusione del gioco d’azzardo patologico (GAP)» – quanto dalle indicazioni del suo art. 1, comma 1, lettera a), ove si afferma che la legge stessa reca disposizioni finalizzate «alla prevenzione e al contrasto delle dipendenze da gioco, nonché per il trattamento terapeutico e per il recupero dei soggetti coinvolti, nell’ambito delle competenze regionali in materia socio-sanitaria».

Il citato art. 7 esordisce stabilendo, al comma 1, che l’esercizio delle sale da gioco e l’installazione di apparecchi da gioco di cui all’art. 110, comma 6, del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 (Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza) (d’ora in avanti: TULPS), nonché «ogni altra tipologia di offerta di gioco con vincita in denaro» sono «soggetti al regime autorizzatorio previsto dalle norme vigenti». Il successivo comma 2 – contro il quale più specificamente si dirigono, in effetti, le censure del rimettente – soggiunge che, fuori dei casi previsti dall’art. 110, comma 7, del TULPS (che individua apparecchi per il gioco lecito di ridotta “pericolosità” sotto il profilo considerato), «l’autorizzazione all’esercizio non viene concessa nel caso di ubicazioni in un raggio non inferiore a cinquecento metri, misurati per la distanza pedonale più breve, da istituti scolastici di qualsiasi grado, luoghi di culto, oratori, impianti sportivi e centri giovanili, centri sociali o altri istituti frequentati principalmente da giovani o strutture residenziali o semiresidenziali operanti in ambito sanitario o socio-assistenziale e, inoltre, strutture ricettive per categorie protette».

Al riguardo, è del tutto condivisibile l’assunto del rimettente – che fonda la questione e ne condiziona la rilevanza nel giudizio a quo – secondo il quale la distanza lineare indicata dalla norma segna il distacco minimo delle attività avute di mira rispetto alle aree tutelate. L’esigenza di rispetto della ratio legis rende, infatti, emendabile da parte dell’interprete la non felice formulazione del precetto, che, a causa di una doppia negazione, sembrerebbe primo visu esigere, anziché vietare, la collocazione di sale e apparecchi da gioco in prossimità dei luoghi “sensibili” («l’autorizzazione all’esercizio non viene concessa nel caso di ubicazioni in un raggio non inferiore a cinquecento metri»).

 

Ciò posto, giova esaminare anzitutto – per ragioni di priorità logico-giuridica, invertendo l’ordine delle doglianze prospettato nell’ordinanza di rimessione – la censura di violazione della competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di «ordine pubblico e sicurezza» (art. 117, secondo comma, lettera h, Cost.): censura a cui supporto vengono richiamate le pronunce di questa Corte che hanno ascritto a detta materia la disciplina dei giochi d’azzardo o che, comunque sia, presentino un elemento aleatorio e distribuiscano vincite (sentenze n. 72 del 2010 e n. 237 del 2006).

Questa Corte ha già escluso che possano ricondursi alla materia considerata due norme della Provincia autonoma di Bolzano (artt. 1 e 2, comma 2, della legge provinciale 22 novembre 2010, n. 13, recante «Disposizioni in materia di gioco lecito») che, similmente a quella in esame, prevedono distanze minime dai luoghi “sensibili” per la collocazione di sale e apparecchi da gioco (sentenza n. 300 del 2011).

La conclusione non può che essere confermata con riguardo alla norma pugliese oggetto dell’odierno scrutinio.

Per costante giurisprudenza di questa Corte, ai fini dell’individuazione della materia nella quale si colloca la norma impugnata, si deve tener conto dell’oggetto, della ratio e della finalità della disciplina da essa stabilita, «tralasciando gli aspetti marginali e gli effetti riflessi, così da identificare correttamente e compiutamente anche l’interesse tutelato» (ex plurimis, sentenze n. 140 del 2015 e n. 167 del 2014; analogamente sentenze n. 175 del 2016 e n. 245 del 2015).

Nella specie, il legislatore pugliese non è intervenuto per contrastare il gioco illegale, né per disciplinare direttamente le modalità di installazione e di utilizzo degli apparecchi da gioco leciti e nemmeno per individuare i giochi leciti: aspetti che – come posto in evidenza dalle citate sentenze n. 72 del 2010 e n. 237 del 2006 – ricadono nell’ambito della materia «ordine pubblico e sicurezza», la quale attiene alla prevenzione dei reati ed al mantenimento dell’ordine pubblico, inteso quale «complesso dei beni giuridici fondamentali e degli interessi pubblici primari sui quali si regge la civile convivenza nella comunità nazionale» (tra le altre, sentenze n. 118 del 2013, n. 35 del 2011 e n. 129 del 2009).

Il legislatore regionale è intervenuto, invece – come già anticipato – per evitare la prossimità delle sale e degli apparecchi da gioco a determinati luoghi, ove si radunano soggetti ritenuti psicologicamente più esposti all’illusione di conseguire vincite e facili guadagni e, quindi, al rischio di cadere vittime della “dipendenza da gioco d’azzardo”: fenomeno da tempo riconosciuto come vero e proprio disturbo del comportamento, assimilabile, per certi versi, alla tossicodipendenza e all’alcoolismo.

La disposizione in esame persegue, pertanto, in via preminente finalità di carattere socio-sanitario, estranee alla materia della tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza, e rientranti piuttosto nella materia di legislazione concorrente «tutela della salute» (art. 117, terzo comma, Cost.), nella quale la Regione può legiferare nel rispetto dei principi fondamentali della legislazione statale.

 

A quanto precede non giova opporre – come fa il rimettente – che la norma censurata inciderebbe su esercizi commerciali, quali quelli che accettano scommesse, soggetti al controllo dell’autorità di pubblica sicurezza ai sensi dell’art. 88 del TULPS – controllo finalizzato alla prevenzione dei reati e alla tutela dell’ordine pubblico – finendo, così, per interferire indebitamente con questo stesso regime autorizzatorio.

La norma regionale si muove su un piano distinto da quella del TULPS. Per quanto si è detto, essa non mira a contrastare i fenomeni criminosi e le turbative dell’ordine pubblico collegati al mondo del gioco e delle scommesse, ma si preoccupa, «piuttosto, delle conseguenze sociali dell’offerta dei giochi su fasce di consumatori psicologicamente più deboli», segnatamente in termini di prevenzione di «forme di gioco cosiddetto compulsivo» (sentenza n. 300 del 2011). In quest’ottica, la circostanza che l’autorità comunale, facendo applicazione della disposizione censurata, possa inibire l’esercizio di una attività pure autorizzata dal questore – come nel caso oggetto del giudizio principale – non implica alcuna interferenza con le diverse valutazioni demandate all’autorità di pubblica sicurezza.

Il giudice a quo (del Tar), a sostegno della censura in esame, allega anche il fatto che la norma impugnata rischierebbe di impedire la gestione di sale da gioco nei comuni «di ridotte dimensioni demografiche e territoriali».

Sviluppando tale argomento, le parti private costituite assumono che l’art. 7 della legge reg. Puglia n. 43 del 2013, per come è congegnato, più che tutelare le “fasce deboli” della popolazione rispetto al rischio della ludopatia, produrrebbe un vero e proprio «effetto espulsivo» del gioco d’azzardo lecito dal territorio regionale. La distanza minima prevista (cinquecento metri per il percorso pedonale più breve) e l’ampiezza del catalogo dei luoghi ritenuti “sensibili” renderebbero, infatti – secondo le stesse parti private – praticamente impossibile installare sale da gioco nella quasi totalità dei comuni della Puglia, compreso il suo capoluogo.

In questi termini, il rilievo si rivela, peraltro, inconferente rispetto alla censura sottoposta all’esame della Corte. Esso non incide, infatti, sul versante della competenza ad adottare la norma impugnata – rispetto al quale resta fermo quanto in precedenza osservato – ma su quello del contenuto della regolamentazione concretamente adottata. Al legislatore pugliese si rimprovera, in sostanza – segnatamente dalle parti private – di aver emanato una norma eccedente lo scopo e idonea a paralizzare le iniziative imprenditoriali nel settore del gioco lecito, ledendo anche l’affidamento di chi aveva in esso investito. Tali profili esulano, tuttavia, dall’odierno thema decidendum, non essendo la Corte chiamata a verificare la conformità della norma impugnata a parametri diversi da quelli attinenti a profili di competenza.

La conclusione non è inficiata dall’ulteriore deduzione delle parti private, secondo la quale, vietando di fatto l’installazione di sale per il gioco lecito nella Regione, la norma denunciata finirebbe per incentivare il gioco illecito e i fenomeni criminosi ad esso collegati, in quanto impedirebbe di incanalare la fisiologica “domanda di gioco” della popolazione nei binari della legalità. Quello addotto – ove pure, in ipotesi, sussistente – rappresenterebbe, comunque sia, un effetto indiretto o riflesso della norma impugnata, non rilevante, alla luce della ricordata giurisprudenza di questa Corte, ai fini dell’individuazione della materia nel cui ambito la norma stessa si colloca.

 

 

L’altra censura del giudice a quo – la prima nel suo ordine espositivo – è quella di violazione dei principi fondamentali posti dallo Stato nella materia, di competenza legislativa concorrente, «tutela della salute» (art. 117, terzo comma, Cost.): doglianza che fa perno sul dedotto contrasto della norma censurata con l’art. 7, comma 10, del d.l. n. 158 del 2012.

Nella cornice di un complesso di misure intese a promuovere «un più alto livello di tutela della salute» (così il titolo del decreto-legge) e che hanno portato, tra l’altro, ad estendere i livelli essenziali di assistenza alle prestazioni di prevenzione, cura e riabilitazione delle persone affette da «ludopatia» – intesa «come patologia che caratterizza i soggetti affetti da sindrome da gioco con vincita in denaro, così come definita dall’Organizzazione mondiale della sanità» (art. 5, comma 2, del d.l. n. 158 del 2012, ora peraltro abrogato) – il citato art. 7 reca, ai commi 4 e seguenti, una serie di disposizioni intese a contrastare l’insorgenza di detta patologia. Il comma 10 – che qui interessa – prevede, in questa chiave, la progressiva ricollocazione dei punti della rete fisica di raccolta del gioco praticato mediante gli apparecchi di cui all’art. 110, comma 6, lettera a), del TULPS – ossia con le cosiddette slot machines – che risultino ubicati in prossimità di luoghi “sensibili” (in specie, istituti di istruzione primaria e secondaria, strutture sanitarie e ospedaliere, luoghi di culto, centri socio-ricreativi e sportivi). La ricollocazione deve essere, peraltro, pianificata dall’Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato – e, dopo la sua incorporazione, dall’Agenzia delle dogane e dei monopoli – tenuto conto degli interessi pubblici di settore, sulla base di criteri definiti con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, adottato di concerto con il Ministro della salute, previa intesa sancita in sede di Conferenza unificata. Lo stesso comma 10 dell’art. 7 del d.l. n. 158 del 2012 aggiunge che le pianificazioni operano relativamente alle concessioni di raccolta di gioco pubblico bandite successivamente alla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto-legge e che valgono, per ciascuna concessione, in funzione della dislocazione territoriale dei luoghi “sensibili” (esclusi i centri socio-ricreativi e sportivi) esistenti alla data del relativo bando.

Secondo il rimettente, il legislatore pugliese – introducendo norme immediatamente operative in tema di distanze delle sale e degli apparecchi da gioco rispetto ai luoghi “sensibili” – avrebbe “scavalcato” il procedimento di pianificazione prefigurato dalla norma statale (destinato a svolgersi a livello centrale con la partecipazione di plurimi soggetti istituzionali), violando, con ciò, un principio fondamentale della legislazione statale in materia di «tutela della salute».

Alla luce di quanto in precedenza posto in evidenza, la riconducibilità della norma regionale in esame nell’ambito della materia «tutela della salute» non è, in effetti, contestabile. Il discorso è, tuttavia, diverso con riguardo alla valenza da attribuire all’evocata norma interposta di cui all’art. 7, comma 10, del d.l. n. 158 del 2012.

Come rilevato anche dal Consiglio di Stato (sezione terza, sentenza 10 febbraio 2016, n. 579), dalla citata norma statale si ricava soltanto il principio della legittimità di interventi di contrasto della ludopatia basati sul rispetto di distanze minime dai luoghi “sensibili”, non anche quello della necessità della previa definizione della relativa pianificazione a livello nazionale.

La pianificazione prefigurata dalla disposizione statale invocata come norma interposta non è, peraltro, mai avvenuta, non essendo stato emanato, malgrado il tempo trascorso, il decreto interministeriale che doveva definirne i criteri. Il che rende l’intiero meccanismo inoperante, non potendosi ritenere che la mancanza di detto decreto paralizzi sine die la competenza legislativa regionale (al riguardo, sentenza n. 158 del 2016).

 

 

 

Le conclusioni ora esposte trovano puntuale conferma in successivi interventi dello stesso legislatore statale, richiamati anche – ma in opposta direzione – dalle parti private.

L’art. 14 della legge 11 marzo 2014, n. 23 (Delega al Governo recante disposizioni per un sistema fiscale più equo, trasparente e orientato alla crescita) ha conferito, infatti, al Governo la delega legislativa per il riordino in un codice delle disposizioni vigenti in materia di giochi pubblici, prevedendo, tra i criteri di delega – assieme a quello dell’adeguamento della normativa «all’esigenza di prevenire i fenomeni di ludopatia ovvero di gioco d’azzardo patologico e di gioco minorile» (lettera a del comma 2) – l’altro della fissazione «di parametri di distanza dai luoghi sensibili validi per l’intero territorio nazionale», ma con espressa garanzia della «salvaguardia delle discipline regolatorie nel frattempo emanate a livello locale», che risultassero coerenti con i principi stabiliti dal decreto delegato (lettera e del comma 2). Ciò a dimostrazione del fatto che simili discipline potevano essere medio tempore adottate anche in assenza della pianificazione prevista dal d.l. n. 158 del 2012.

È ben vero che con la formula «discipline regolatorie […] emanate a livello locale» il legislatore intendeva riferirsi a quelle adottate dai comuni, in applicazione delle norme che regolano i poteri dei relativi organi rappresentativi: norme che – come riconosciuto anche da questa Corte (con particolare riguardo ai sindaci, sentenza n. 220 del 2014) – si prestano ad essere interpretate come idonee a legittimare l’adozione di misure di contrasto della ludopatia, anche per quanto attiene all’imposizione di distanze minime delle sale da gioco rispetto ai luoghi “sensibili”. Risulta, tuttavia, evidente come la legittimazione a disciplinare la materia debba riconoscersi, a fortiori, alle Regioni, tramite lo strumento legislativo.

Essendo rimasta anche la ricordata delega legislativa inattuata, è da ultimo intervenuta la legge 28 dicembre 2015, n. 208, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)». Frammezzo ad un complesso di altre disposizioni intese ad aggiornare la disciplina dei giochi e delle scommesse, anche in funzione della lotta alla ludopatia, l’art. 1, comma 936, della legge ora citata ha previsto che entro il 30 aprile 2016 vengano definite, in sede di Conferenza unificata, «le caratteristiche dei punti di vendita ove si raccoglie gioco pubblico, nonché i criteri per la loro distribuzione e concentrazione territoriale, al fine di garantire i migliori livelli di sicurezza per la tutela della salute, dell’ordine pubblico e della pubblica fede dei giocatori e di prevenire il rischio di accesso dei minori di età». Le intese raggiunte in sede di Conferenza unificata dovrebbero essere recepite con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, sentite le Commissioni parlamentari competenti.

La disposizione, rivolta chiaramente al futuro, suona come ulteriore riprova del fatto che i criteri per la dislocazione delle sale da gioco, anche nell’ottica della tutela della salute, non dovevano essere necessariamente fissati in forza dell’art. 7, comma 10, del d.l. n. 158 del 2012. La nuova previsione legislativa – più ampia della precedente, perché non limitata ad alcuni tipi di apparecchi da gioco, né alle sole concessioni successive all’entrata in vigore della legge – finisce, d’altro canto, per assorbire il meccanismo di pianificazione previsto dalla norma del 2012.

Ma anche il procedimento previsto dal citato art. 1, comma 936, della legge n. 208 del 2015 non si è ad oggi ancora perfezionato.

 

 

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