Altro capitolo del Rapporto Italia 2019 dell’Eurispes, presentato questa mattina a Roma presso l’Università della Sapienza, per quanto riguarda l’analisi della realtà7rappresentazione affronta la questione “Fisco e giochi virtuali: le
Altro capitolo del Rapporto Italia 2019 dell’Eurispes, presentato questa mattina a Roma presso l’Università della Sapienza, per quanto riguarda l’analisi della realtà7rappresentazione affronta la questione “Fisco e giochi virtuali: le nuove frontiere dell’economia digitale” andando ad indagare l’offerta e il giro di affari legato ai giochi virtuali e inapp, alle microtransazioni ad esse legate e al rapporto con il fisco di questa economia.
I giochi freemium. I giochi on line freemium (crasi fra le parole free, gratuito, e premium, che indica un’apposita strategia sui prezzi) sono offerti gratis o a bassi costi al mercato e prevedono pagamenti per le funzionalità aggiuntive. L’idea di profitto è quella delle micro-transazioni: dopo aver scaricato il gioco, vengono rilasciati contenuti a pagamento in modo continuo e a prezzo basso, attraverso ad esempio la formula degli “acquisti inapp”. Lo sviluppatore (e l’azienda che fa da tramite: Google, Apple, etc.) inizia a guadagnare grazie alla schiera di giocatori “dipendenti”, pronti a spendere solo per vedere come “finisce il gioco”. Lo sviluppatore, pertanto, guadagna non tanto nell’acquisto diretto dell’app, ma durante il suo svolgimento. Percentualmente, è stato dimostrato che questo modello garantisce fino al 270% di ricavi in più rispetto alla vendita “pura” di tutto il gioco e fino al 389% in più rispetto alle app “free con ads”, con i classici messaggi pubblicitari inseriti nel gioco.
La tassazione dei proventi da app per giochi on line. Una volta che un’applicazione viene sviluppata, per venderla, è necessario pubblicarla su uno store online, come l’Android Market di Google o l’App Store di Apple. Per poter vendere i suoi prodotti, uno sviluppatore di applicazioni mobile dovrà siglare una sorta di contratto, chiamato Developer Program, proposto dalla società del negozio online dove si pubblicherà l’applicazione. Ai fini fiscali, pertanto, le controparti saranno società extra Ue come Google Inc. ed Apple Inc. Per quest’ultima, nel caso in cui la propria app caricata sul negozio online di Apple venga acquistata da un utente che vive in un paese dell’Unione Europea, la controparte del Developer Program sarà la iTunes sarl, la cui sede è in Lussemburgo. Nello specifico, quando un utente, sia esso un privato o un’azienda, acquista un’applicazione di uno sviluppatore italiano sull’Apple Store o sull’Android Market, la società di Apple e Google Inc. tratterrà il 30% e verserà allo sviluppatore il 70% del netto. Il guadagno mensile che lo sviluppatore otterrà attraverso la vendita di applicazioni lo si può considerare, ai fini Iva, una prestazione di servizi specifici immateriali, del tipo di commercio elettronico diretto. Lo sviluppatore che vende le sue applicazioni per Android sull’Android Market, inoltre, non dovrà neppure essere iscritto al VIES, in quanto la sua controparte è sempre Google Inc., una società americana. Invece, se uno sviluppatore vende app per iPhone in un paese europeo, lo stesso dovrà essere iscritto al VIES e sarà soggetto agli obblighi Intrastat. Per quanto riguarda le imposte dirette, comunque, lo Stato italiano perderà il 30% trattenuto dalle multinazionali ed è altamente improbabile che riesca ad intercettare il 70% di competenza degli sviluppatori.
La fatturazione ai fini Iva delle vendite di app per giochi online. Facendo riferimento all’Iva, l’E-commerce diretto prevede due diverse modalità di applicazione dell’imposta, a seconda che il rapporto che si instaura tra venditore e acquirente sia B2B (business to business) o B2C (business to consumer). Nel caso di B2B (business to business) venditore e acquirente sono entrambi due soggetti passivi per quanto riguarda l’Iva. In questo caso l’Iva è territorialmente rilevante nel paese del soggetto committente, ai sensi dell’articolo 7-ter del Dpr n. 633/72. Questo significa che lo sviluppatore italiano (che sia regolarmente dotato di partita Iva) dovrà emettere fattura senza applicazione dell’Iva, indicando “inversione contabile”, se il committente soggetto passivo è residente in un paese Ue, oppure “operazione non soggetta”, se il committente soggetto passivo è residente in paese extra-Ue. Nel caso invece di B2C (business to consumer), il venditore è soggetto passivo Iva e l’acquirente è un privato consumatore. Nei rapporti B2C l’Iva è territorialmente rilevante nel paese del committente. Questo significa che il venditore è tenuto ad identificarsi in ogni paese di residenza del soggetto che acquista l’applicazione. In alternativa, per rendere più agevole questo regime, è possibile utilizzare il cosiddetto “Moss – Mini One Stop Shop”, un regime di tassazione opzionale introdotto come misura di semplificazione connessa alla modifica del luogo di tassazione Iva applicabile ai servizi elettronici B2C. Il Moss, dunque, evita al fornitore di identificarsi presso ogni Stato Membro Ue di Consumo per effettuare gli adempimenti richiesti (dichiarazioni e versamento). In pratica, optando per il Moss, il soggetto passivo trasmette telematicamente, attraverso il Portale elettronico, le dichiarazioni Iva trimestrali ed effettua i versamenti nel proprio Stato membro di identificazione, limitatamente alle operazioni rese a consumatori finali residenti o domiciliati in altri Stati Membri di Consumo.
Proprio in virtù di questa particolare disciplina ai fini Iva in vigore in àmbito Ue, i principali App store si sono organizzati per consentire agli sviluppatori di applicazioni di non dover effettuare tutti gli adempimenti Iva previsti dal regime B2C. Come indicato nei vari contratti che questi portali fanno firmare agli sviluppatori, i vari gestori (Google e Apple) si sostituiscono quindi agli utenti finali (consumatori privati), fornendo attività di intermediazione, e rendono in sostanza il rapporto con lo sviluppatore di tipo B2B, anziché B2C. Per comprendere se e quanto di questo mondo resta sconosciuto al fisco è necessario porsi alcuni interrogativi. Per cominciare, bisogna chiedersi se gli sviluppatori abbiano aperto partita Iva per vendere applicazioni su Play Market e se i guadagni vengano correttamente indicati in UNICO/730. Inoltre, occorre verificare se lo sviluppatore app Android sia inquadrato come impresa o come professionista: l’inquadramento corretto per vendere app (un’attività di servizi/commercio elettronico diretto, considerata quindi abituale/continuativa) è quello di impresa, il cui regime contributivo Inps è senz’altro più pesante.
Solo per fare un esempio, – conclude Eurispes – è stato dimostrato che il modello freemium per i giochi garantisce fino al 270% di ricavi in più rispetto alla vendita “pura” di tutto il gioco e fino al 389% in più rispetto alle app “free con ads”, con i classici messaggi pubblicitari inseriti nel gioco. I volumi di affari che generano giochi e app online aprono una serie di interrogativi sulle modalità di tassazione.
PressGiochi
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