Pubblichiamo di seguito la lettera a firma di Massimiliano Pucci, Presidente Astro che scrive a Concita De Gregorio, editorialista di Repubblica, in riferimento ad un suo articolo sul tema della
Pubblichiamo di seguito la lettera a firma di Massimiliano Pucci, Presidente Astro che scrive a Concita De Gregorio, editorialista di Repubblica, in riferimento ad un suo articolo sul tema della legalizzazione della cannabis, che può essere uno spunto per aprire una più ampia riflessione sui processi di legalizzazione -uno dei primi in Italia ha coinvolto il settore del gioco a partire dai primi anni 2000- e sul significato e il senso dell’antiproibizionismo nel nostro Paese.
“Bologna, 11 luglio 2022
Gentile Dottoressa De Gregorio,
come presidente di un’associazione di rappresentanza delle imprese operanti nel comparto del gioco pubblico legale ho letto con molta attenzione il suo articolo, intitolato <<Cannabis, perché va legalizzata>>, apparso, nei giorni scorsi, sul quotidiano La Repubblica.
I temi che Lei affronta nell’articolo, con encomiabile lucidità e dovizia di argomenti, sono a mio avviso utili per approfondire, in termini più generali, il tema della contrapposizione politico-culturale che si sostanzia nella mai sopita dicotomia proibizionismo/antiproibizionismo.
Mi permetto di inserirmi nel dibattito perché il settore del gioco d’azzardo costituisce il primo esempio, nel nostro Paese, di applicazione concreta di una politica antiproibizionista: la situazione precedente alla legalizzazione e le vicende che ne sono scaturite possono quindi rappresentare un utile spunto per una riflessione generale sul tema.
Il contesto che convinse il legislatore ad avviare il processo di legalizzazione del gioco si caratterizzava per la presenza di un mercato clandestino ampiamente diffuso.
Il gioco d’azzardo era quindi vietato ma le persone giocavano ugualmente frequentando i fumosi “sottoscala” o “retrobottega” allestiti come vere e proprie bische clandestine.
Nonostante la legalizzazione del gioco avvenne all’esito di un dibattito che vide convergere su questo obiettivo un ampio fronte politico trasversale, sono bastati pochissimi anni per assistere ad un ripensamento altrettanto trasversale.
Oggi ci troviamo difronte ad un’ostilità che vede compatti, contro il gioco legale, più o meno tutti i partiti.
Un’ostilità che, lungi dal tradursi nella conseguente assunzione di responsabilità di proporre, in sede parlamentare, un ritorno al proibizionismo (pur sapendo di restituire alla criminalità quello che rappresentava uno dei suoi principali core business), viene perseguita attraverso strumenti di propaganda, finalizzata alla denigrazione degli operatori del settore, e iniziative legislative finalizzate a provocare la morte per consunzione delle imprese attraverso l’imposizione incoerente di limiti ed oneri che renderebbero insostenibile la sopravvivenza di qualsiasi attività economica.
Questo ripensamento collettivo si sostanzia nella enfatizzazione delle conseguenze negative che il gioco, laddove genera fenomeni dipendenza, può arrecare alla salute degli utenti. Come se, prima della legalizzazione, non fosse esistita la dipendenza patologica da gioco d’azzardo.
Qui risiede l’errore di fondo che occorre aver presente quando, almeno qui in Italia, si intendono affrontare determinati fenomeni, socialmente non estirpabili, mediante lo strumento della regolamentazione al posto di quello della proibizione, attraverso lo stimolo alla emersione, in luogo del loro relegamento negli oscuri meandri della clandestinità.
Alla base della cultura antiproibizionista non dovrebbe esserci l’illusione di eliminare gli effetti negativi che hanno motivato l’introduzione dei divieti che si intendono rimuovere ma, semplicemente, la presa d’atto che, come da Lei giustamente evidenziato, <<proibire qualcosa che è di uso comune, pratica o necessità corrente, non significa abolirlo ma consegnarlo al mercato criminale>>.
Sulla base di questa premessa, gli obiettivi delle scelte antiproibizioniste dovrebbero quindi essere: 1) quello di mettere a disposizione degli utenti prodotti o condizioni di fruizione di servizi che li garantiscano dalle frodi o dalla “insalubrità” (in senso lato) che si annidano nelle pieghe dei mercati clandestini; 2) togliere, per l’appunto, una fonte di guadagno alla criminalità, 3) dirottare verso le casse dello Stato una parte di quei proventi che prima erano ad intero appannaggio delle organizzazioni criminali.
L’eliminazione degli effetti collaterali del fenomeno che si va a legalizzare, non rappresenta quindi il motivo ispiratore delle campagne di legalizzazione.
Questo, ovviamente, non esclude che occorra adoperarsi con tutte le energie disponibili per prevenire tali effetti. Anzi, il fatto che un fenomeno venga fatto emergere e convogliato entro una cornice di regole, comporta un’assunzione di responsabilità, da parte delle Istituzioni, che non si riscontra quando lo Stato decide di occuparsi di un fenomeno solo in chiave repressiva (che, difronte a comportamenti ampiamente diffusi, non ha alcuna efficacia) lasciandone la gestione quotidiana alle organizzazioni criminali.
L’esperienza della legalizzazione del gioco d’azzardo, nonostante sia stata sviluppata entro una fitta e severa cornice di regole e controlli e abbia ampiamente consentito di raggiungere i tre obiettivi sopra indicati, si sta gradualmente svuotando per effetto di un proibizionismo di ritorno che fa sorgere seri dubbi sul fatto che la classe politica e l’opinione pubblica italiane siano attrezzate per questo salto culturale di ispirazione laica e liberale.
Pur essendo quindi pienamente favorevole alla legalizzazione della cannabis, sono purtroppo convinto che, proprio grazie a questa assenza di laicità che connota la nostra cultura politica e popolare, una volta realizzato questo obiettivo saranno pochi gli anni che trascorreranno prima che venga dato avvio, anche da parte delle stesse forze politiche che oggi lo stanno perseguendo, a campagne di demonizzazione (fondate su motivazioni di natura etico-ideologica) tese ad enfatizzare l’unico problema che le legalizzazioni non possono risolvere ma soltanto gestire: l’eliminazione degli effetti collaterali del prodotto legalizzato.
Un altro aspetto su cui mi piacerebbe stimolare una sua riflessione, attiene all’essenza stessa della cultura antiproibizionista.
Noto infatti con stupore che molte di quelle forze politiche che oggi si proclamano orgogliosamente antiproibizioniste per giustificare il loro appoggio alla legalizzazione della cannabis, sono le stesse che si stanno dimostrando altrettanto orgogliosamente proibizioniste (rinnegando le loro precedenti scelte) rispetto al gioco pubblico legale.
Il vero antiproibizionismo dovrebbe invece consistere in un approccio culturale fondato su un razionale pragmatismo orientato al raggiungimento di determinati obiettivi rispetto a dei comportamenti sociali dimostratisi ingestibili attraverso i divieti: dovrebbe quindi rimanere svincolato da graduatorie fondate su scale di valori, originate dalle proprie preferenze personali riguardanti determinate scelte di consumo.
In altre parole, un conto è essere a favore della legalizzazione della cannabis perché è un prodotto che è familiare al contesto culturale in cui mi sono formato e al mio elettorato di riferimento, altra cosa è esserlo in virtù di un generale approccio culturale di stampo antiproibizionista.
Mentre la Sua analisi mi appare sinceramente orientata da una cultura antiproibizionista, devo constatare a malincuore che l’appoggio della sinistra alla legalizzazione della cannabis, letto da chi è rimasto scottato dal voltafaccia della stessa sinistra sul tema del gioco d’azzardo, appare semplicemente motivato dalla vicinanza culturale al prodotto cannabis, il che non sarebbe di per sé deprecabile ma lo diventa ogniqualvolta questo atteggiamento viene artificiosamente ammantato da riferimenti alla cultura antiproibizionista.
Un esempio per spiegarmi meglio: nel corso di un’audizione al Consiglio Regionale del Piemonte, in cui si discuteva della riforma della legge regionale sul gioco (di stampo smaccatamente proibizionista) approvata dalla vecchia maggioranza di centro-sinistra e che ha provocato la falcidia di migliaia di posti di lavoro, un giovane consigliere regionale di Liberi e Uguali, dopo aver iniziato il suo intervento declamando la propria cultura antiproibizionista, si è sentito poi di dover precisare che l’antiproibizionismo poteva applicarsi alle droghe leggere ma non al gioco in quanto questa forma di consumo è da considerarsi eticamente inaccettabile.
Posto che le speranze per la diffusione di una cultura politica laica, pragmatica e attenta alle libertà individuali (l’unico terreno fertile per lo sviluppo di una seria cultura antiproibizionista) possono essere riposte soltanto sulla nascita di un fronte riformista, le descritte contraddizioni che albergano nel campo politico che più dovrebbe incarnare quello spirito, appaiono d’ostacolo anche alla stessa tenuta di un’eventuale riforma che portasse alla legalizzazione della cannabis.
L’emersione del consumo di cannabis renderebbe visibili, soprattutto da parte delle giovani generazioni, anche degli scenari meno romantici di quelli che ora lo connotano come un innocuo strumento di svago idoneo a stimolare il rilassamento e la convivialità.
Sarà quello il momento in cui la cultura antiproibizionista, fino ad un attimo prima ostentatamente declamata, sarà messa a dura prova dall’insorgere di pulsioni ideologiche ispirate dall’idea dei “consumi e delle abitudini eticamente virtuose” da imporre agli individui a suon di divieti.
Il suo pregevole articolo, letto alla luce dell’esperienza che sta vivendo il settore a cui appartengo, rappresenta certamente uno spunto per aprire una più ampia riflessione sul significato e il senso dell’antiproibizionismo in salsa italiana.
Ringraziandola per l’attenzione prestatami, le porgo i mie più cordiali saluti.
Massimiliano Pucci
Presidente ASTRO Confindustria SIT”
PressGiochi